domenica 9 agosto 2015

ABIURA DI ME.

AAA CERCASI SUSAN LETTORI DISPERATAMENTE. 

"Ci sono alcuni fatti evidenti": mi piace pensare fosse una delle frasi preferite di Escobar.
Io però mi limito a scrivere un romanzo –e da come mi sta sciupando per quanto ne so è IL romanzo.
Anche Zooey, quando zampetta tra gli appunti, mi graffia in quel modo che fa tanto "sì meow attieniti ai fatti e non cedere".


Ci sono i personaggi principali, per dirne uno. Tre, questa volta, e ingarbuglia più di quanto credessi l'intreccio delle parole che dai polpastrelli diventano inchiostro per terminare frasi di senso compiuto.
C'è un titolo definitivo, almeno quello!, per dirne un altro.
Il titolo è "La creazione dell'Autunno", che a leggerlo con quest'afa già pare un buon auspicio.


C'è l'Islanda con la sua magia, tanto per aggiungere.


E poi c'è lei, Elín, la protagonista femminile, che dei tre è la più complicata di tutte le sfide. Elín ha vent'anni e di aspettare che il piatto della vendetta si raffreddi proprio non ne vuole sapere. Ogni tanto provo a farla ragionare, le dico che la fretta non è cattiva consigliera solo se ti chiami Usain Bolt ma niente, si rifugia nella sua distorta idea di meditazione e non mi ascolta mezzo.
Come non adorarla?
Assomiglia pure a Emilia Clarke, c'est tout dire.


Gli altri due, Richard e Jón Haust (Haust in islandese significa Autunno) sono più malleabili, per ora. Dico per ora perché quando esploro la stanza dove Jón Haust dipinge mi pare di scorgere movimenti tra gli sguardi dei personaggi nei quadri. Boh, meglio stare all'erta quando scrivo di lui, meglio attivare il correttore automatico mentre ricopio su word i capitoli.
Se "mai fidarsi di se stessi" è un buon consiglio, figurarsi per ciò che si crea su carta: vale doppio.
E comunque.
I percorsi dei tre si intrecceranno, almeno spero, a causa di un avvenimento esterno che blablabla e ancora bla e lì porterà a trovare una risposta plausibile alla domanda che eccetera eccetera (sì sì sì devo pensarci su bene).
Il fatto è che non resisto, Elín mi fissa in sogno pronta a scagliarmi una tigre contro se non la spammo via etere al più presto. Ergo, eccola nel suo primo capitolo in tutta la sua rabbia caramellata.
Io tra l'altro sono alla ricerca di lettori per le prime bozze del romanzo, devo comprendere cosa limare e dove insistere. Se hai tempo libero...
E adesso, col primo capitolo in attesa, guardiamoci allo specchio in stile Saul Goodman, un bel respiro e: Showtime!



Buona estate –o per chi al momento non ha ferie come me, buon Autan.




ELÍN KALIDÓTTIR


PARTE PRIMA: LA FAME.

01.

Il Maestro dice «Om», sentenzia «Le tue palpebre si fanno sempre più pesanti, sempre più pesanti», rivela «Prova ad aprire gli occhi ma non puoi, prova ad aprire gli occhi ma non puoi».
Elín non ha bisogno di vedere, i battiti accelerati dei bavosi seduti in ordine sparso dietro di lei sono fin troppo echeggianti, tu-tum tu-tum a riempire lo spazio dei loro pensieri in mille posizioni da omini di lego porno chic. Lei sarebbe la Bella Addormentata e Vogliosa nel bosco, alle altre presenti non resta neppure lo spazio per minuscole comparsate. Pace e bene, sorelle. Le gocce di sudore dei maschi accanto cadono sui tappetini new age prestati dalla Scuola del Maestro e a Elín non serve saper interpretare il codice morse per intuire le parole che il plick plick delle loro fronti e mani unte stanno battendo a turno: “Puttana” compongono. “Succhiamelo”. E anche: “Godo” “Troia” “Vengo”. Mantenendo le gambe incrociate si liscia gli shorts gialli con la mano destra; gli occhi chiusi le fanno notare pieghe del tessuto e i minuscoli avvallamenti di quando incontra la pelle dura dei polpastrelli, residui del suo trascorso da provinciale.
Godete, maiali schifosi. Volete aprire gli occhi e guardarmi, lo so.
Il Maestro ripete, zigzagando tra le file:
«I vostri piedi camminano sull'erba, state camminando sull'erba»,
«Vi sentite rilassati, sempre più rilassati»,
«Om.»
Dal fondo della stanza proviene uno starnuto soffocato, di quelli che rovinano la concentrazione a mezza classe, l'etcì interrotto che richiede sforzo sia per trattenerlo che per fingere di non averlo udito.
Se solo il Maestro avesse usato parole come "Il vostro naso non esiste", il raffreddore sarebbe un ricordo lontano.
Forse però è più di un raffreddore: allergia, ipotizza Elín. O una di quelle malattie mortali che si trasmette con un semplice starnuto.
Ebola 2.0 Deluxe Edition.
Immagina le gocce impregnate di virus saltellare sulle teste degli allievi prima di inocularsi sottopelle. Potrebbero morire tutti a breve senza una spiegazione e la loro unica colpa sarà di possedere narici.
La mia unica colpa è di trovarmi a quasi 500 chilometri da casa.
A detta del Maestro, la colpa di Elín è di essere desiderata dalla totalità degli uomini presenti nella stanza, lui compreso.
Prendi me, virus. Rendimi libera. O ti annienterò.
Il Maestro esorta «Tutti insieme: Om.»
Ventisette bocche, ventisei bocche più le labbra carnose di Elín, ripetono: «Om.»
Elín si immagina la Paziente Zero della prossima pandemia, la Madre del Caos, coi suoi capelli biondi raccolti in una treccia giù lungo la schiena, irresistibile nella tunica color perla e accecata dai flash dei riflettori.
Microfoni che si accavallano sul tavolo, giornalisti feriti e sgomitanti contro le vetrate antiproiettile che la dividono dal resto del mondo. Uomini che la vorrebbero violare, uomini col volto di suo zio.
Lei, Elín.
Elín il Virus Letale.
«Vi chiederete se ci sarà salvezza», annuncerà in mondovisione con la voce suadente di chi canticchia l'ultima ninna nanna all'umanità.
«La risposta è no.»
Pausa. Respiro. Pausa. Occhiata compiaciuta alle vetrate. Respiri spezzati che appannano la visuale.
«Vi chiederete perché ho deciso di infettarvi», dirà.
Pausa, immagina i traduttori simultanei. I sottotitoli a Panasonic Square. I gelati che colano tra le mani.
«Perché vi odio tutti. Tutti. Perciò morirete. Oggi. O forse siete già morti. Come me. Non ricordi? Non ricordate?»
Elín la Distruttrice. Elín, il nome finale che nessun libro ripeterà.
HIV, Sars, Aviaria, Peste Bubbonica, Tubercolosi, Febbre Gialla, Prepotenza Maschile. E infine, Elín.
L'idea di una resa dei conti le solletica l’inguine e si tocca a controllare eventuali punti di sutura riaffiorati dal passato, ma sotto i pantaloncini non sente che la liscia superficie della vittoria. Vorrebbe ubriacarsi con sorsate di vendetta senza il boccaglio dell'abitudine, spremere il cervello fino a far gocciolare via i brutti ricordi.
Trattiene invece il respiro aggrottando le sopracciglia all'ingiù, come fosse per davvero concentrata nella meditazione, nella ricerca di sé. Om.
Moriranno. E io sarò il virus, la malattia e l'effetto placebo.
Elín la Willy Wonka dello sterminio.
Moriranno tutti.
Riprende fiato col naso e mentre la cassa toracica espone in vetrina le curve pensa a chi la aspetta a casa, su ai limiti del circolo polare. Tutti significa anche lui?
Visualizzarlo è un rasoio che trancia le vene alla rabbia: non va bene, non può permettersi distrazioni.
Non ora, non qui. Non dissanguarmi l'odio, amore mio. Una volta secca, troverai nient'altro che me.
«La risposta è già dentro di voi» pronuncia il Maestro dalla porta d'ingresso,
«Sentite l’energia che vi sale dai piedi fino ai polpacci, li sentite forti, sempre più forti»,
«Om.»
Elín prova a focalizzare un grumo di energia su per le caviglie ma immagina la massa tumorale con cui ha convissuto sua madre, desiste.
Socchiude l’occhio sinistro, quel poco che basta per intravedere lo spazio di fronte: come sospettava, il Maestro ha lo sguardo fisso sulla sua scollatura. Potrebbe spalancare gli occhi che manco se ne accorgerebbe, tutto preso a immaginare il diametro dei capezzoli.
Patetico. Patetico, om.
L'ombra si allontana, sente l’eco di qualche “sì” dal Maestro intento a giudicare la postura di ognuno.
Elín aspetta che i passi siano distanti ed entra in apnea per forzare gli addominali e non pensare a nulla. Non pensare a lui. Il pensiero è la fine delle buone intenzioni.
Così, mentre i polmoni chiedono aria, quel punto di energia che dovrebbe indurire i polpacci si trasforma in immagini da bruciare prima che sia troppo tardi, prima che la paura di non riuscire a vendicarsi con l’umanità torni a bussare forte.
Io sono Elín Kalidóttir. Kali, come la dea.
Io sono Elín ma puoi chiamarmi La Morte. Puoi chiamarmi come preferisci, io non ti risponderò.
Il Maestro batte le mani tre volte, esclama «Bene. Bravi. Vi sentite pieni di energia»,
suggerisce «Provate ad aprire gli occhi, le vostre palpebre sono sempre più leggere, sempre più leggere»,
conclude «Benissimo. Bravissimi. Il cestino delle offerte è al solito posto. Rialzatevi, ora.»
E ventisette allievi, ventisei più la Bella Addormentata, tornano al loro essere bipedi, ai loro frigoriferi zeppi di cibi aromatizzati col nulla scintillante.
Elín guarda sfilare gli uomini che lanciano le ultime occhiate di sbieco al suo fondoschiena, passa la lingua per bagnarsi le labbra fingendosi sovrappensiero, una devota alla meditazione.
Prima di uscire accenna un sorriso di cortesia avvicinandosi al Maestro; l'uomo si volta piegando appena il capo prima di tornare al conteggio delle mance raccolte, senza accorgersi che qualche banconota è già al sicuro tra le curve della ragazza.
«A presto, Maestro.»
«A presto.»
Morirai.