mercoledì 26 luglio 2017

«SI PUÒ FARE!», O: CHISCRIVE DÀ FORMA, CHILEGGE DÀ VITA.



A volte, ChiScrive aggiunge l’ultimo punto in seguito all’ultima parola dell’ultimo paragrafo.
Quando succede, solitamente esclama: «Il romanzo è concluso!»
(In alternativa, ma meno frequenti: 
«Yabadabadoo!», 
«Questo romanzo è #nabbomba!», 
«Ma il corriere di zalando che fine ha fatto?»)
E si sente potente, inattaccabile, invincibile, in. Va dal panettiere e quasi si stupisce: «La fila vale anche per me?, io che ho appena concluso il romanzo?»
Dura poco, per fortuna. La soddisfazione è simile alle stelline di Mario Kart: ChiScrive si sente indistruttibile ma proprio mentre si gode l’effetto questo svanisce e puff!, si ritrova al bancone col sorriso ebete e una battuta qualunque in gola per giustificare già un accenno di occhiaie.
Insomma: «Due ciabatte e una rosetta, grazie.»


ChiScrive sa di essere Frankenstein, sa che il romanzo (con centinaia di cuciture, tagli e abrasioni varie) è la Creatura. Quello che dimentica – nei giorni successivi al completamento è il potere di ChiLegge.
ChiLegge, e cioè: colei/lui che darà vita alla Creatura.
ChiLegge costringe il romanzo al primo ruttino, ChiLegge è la forbice che taglia il cordone ombelicale.

ChiScrive, a questo punto, ha un brivido: nel momento in cui ChiLegge donerà vita alla Creatura, questa si esprimerà ineluttabilmente in modo autonomo, con differenze più o meno marcate dalle intenzioni del creatore.
ChiScrive ricopre dunque d'insicurezza la spavalderia, sfoglia per l'ennesima volta la Creatura, si sofferma su alcuni concetti. «Sono chiari, sìssì», dice per farsi coraggio.
Così, sfumata la patina d’invincibilità, ChiScrive s’affaccia timidamente verso l’esterno, contatta o viene contattato da alcuni dei ChiLegge, getta il cadavere nella folla speranzoso che possa prendere vita.
«Si può fare!», bofonchia alla gente e all'agente. «Il messaggio arriverà!»



L’editore – o chi per esso –  resta in silenzio, scuote la testa, indica ChiLegge.




ChiScrive osserva la Creatura muoversi, ascolta le prime parole pronunciate, comprende l’inganno. Tutti quei concetti, quelle ore trascorse a cercare il termine adatto, quelle frasi giudicate perfette, quelle note a piè di pagina… la Creatura è viva e si esprime a casaccio, ognuno dei ChiLegge gl’insegna vocaboli che ChiScrive proprio non utilizzerebbe mai, non per certi argomenti. «È diventato un mostro!», si dispera ChiScrive mentre annota sul taccuino “Non sono le parole a fregarci, è l’esperienza, il vissuto che diamo alle parole stesse.

A volte, ChiLegge incontra ChiScrive.
Argomento: il romanzo, la Creatura.
ChiScrive ascolta – intimidito, speranzoso, indifferente: ChiScrive è come minimo bipolare e se non comprende le osservazioni tende a rispondere col linguaggio farfalla, ma è cosa risaputa – e come spesso accade il romanzo raccontato diviene altro. E poi altro. E altro ancora. La Creatura plasmata da ChiScrive e animata da ChiLegge lievita, implode, s’espande, agli occhi di ognuno dei ChiLegge si mostra in modo differente.
O meglio: le parole sono uguali in ogni copia, gli occhi e le esperienze di ChiLegge no.
«Ma non volevo dire questo...», bofonchia ChiScrive mentre ascolta il resoconto sempre differente di quella che prima dell’ultimo punto era la sua Creatura. Fa qualche sì e qualche no con la testa, aspetta che ChiLegge sia distratto per annotarsi sul taccuino “Le parole servono a prendere coscienza delle nostre incomprensioni.”
Dopodiché, nella migliore delle ipotesi, chiude il taccuino: non scriverà mai più.




venerdì 14 aprile 2017

LA BOTTEGA DI NARRAZIONE, O: SCRIVERE È FARE A BOTTE.



Se suonare è scopare, scrivere è fare a botte.
E per fare a botte con ChiLegge è importante lo stile (nei movimenti/frasi) la potenza (la parola precisa è un gancio, la frase fatta un accenno di spostamento d’aria) la velocità/il risparmio di energia (perché sprecare venti parole quando ne bastano cinque?)
Infine c’è la bellezza, che nello scrivere/fare a botte è secondo me un lusso, un di più, la ciliegina non edibile sulla torta panna e cioccolato. Serve, ma insomma. Troppe frasi consecutive che racchiudono bellezza o pensieri “corretti” mi ricordano quando da piccino picciò per recuperare il pallone son caduto tra le ortiche. Preferisco un jab scoordinato allo schiaffo esteticamente perfetto, trovo sia più sincero.
Insomma, durante l’ultimo anno trascorso alla bottegadinarrazione mi son ritrovato più volte a pensare “Ma liuk!, caspita!, perché ce l’hai tanto con la bellezza?, non sarebbe meglio farla tua e riempire di parole tutto quel vuoto che ti porti appresso?”
Così, tra una lezione e l’altra di Giulio Mozzi ho iniziato a ruminare, a interrogarmi sul perché di tant’acredine nei confronti della bellezza e su cosa considero – nella scrittura – un lusso, un elemento superfluo. Come spesso mi accade, rileggere Super nivem (IlMaleNaturale) ha dissipato non poco i dubbi in merito ("...se compiere il male è la mia natura è bene che io compia il male, e specularmente è male che io cerchi di compiere il bene, tanto più che tutto il bene che io cerco di compiere si trasforma alla velocità della luce in male, è già diventato male prima ancora che io lo compia.")
È tutto lì: se la bellezza/FraseAcchiappaLike non fa per me, inseguirla è sprecare energie.

Dicevo: per terminare la prima stesura del romanzo (giusto in tempo per la presentazione di gennaio) ho fagocitato tutta una serie di lezioni e consigli di sponda (Giulio direbbe: suggestioni) su alcuni modi per dare forma valore e senso agli argomenti trattati. Ho dovuto affrontarne di scomodi. Insomma: ho un problema con la gestione della bellezza. Non la mia, eh. Delle frasi. È che scrivendo voglio spostare al lettore il punto di vista delle cose e, per quanto mi riguarda, la bellezza in questo caso c’azzecca molto poco. Trovo invece che lo scrittore abbia necessità di venire alle mani coi lussi.





Alle mani, sì. In fondo scrivere un romanzo è spesso un atto di violenza. Le parole stampate, ciò che dovrebbe unire empaticamente ChiScrive con ChiLegge, sono una sorta di muro. Certo, “No non è così liuk perché quando leggo immagino tutto un mondo fantastico e di conseguenza mi avvicina all’autrice/autore e da lì poi eccetera eccetera”, però scrivere è potenza, è trasfigurare. Se scrivo frasi a casaccio tipo “Questa frase è di resina” “Questa frase ha rigato la lavagna con le unghie” “Questa frase è nata il 29 febbraio” “Questa frase sta per sputarti in un occhio”, ogni volta è ChiScrive a riempire l’immaginario passivo di ChiLegge. Che poi reinterpreta e tutto quanto, ma l'input arriva da lì. Ed è fantastico e fastidioso insieme, per chi sta dall’altra parte del libro. Ma soprattutto: ChiScrive dovrebbe quantomeno assumersi la responsabilità delle parole utilizzate, non c’è bisogno d’essere Peter Parker per capire che da un grande potere deriva una grande responsabilità, o giù di lì.
Ocio alle parole, dunque.
E a non credersi troppo yeahsupermegastrawow in quanto autori di frasi, che il rischio di autocompiacersi (darsi i pugni da solo) e/o scoprirsi dipendenti dagli applausi è sempre in agguato.
O per dirlo con una frase bella: L’inaspettato affila le armi nel punto cieco dei sorrisi.
Questo non vuol dire che ne butto giù di studiate per non compiacere ChiLegge (questo sì sarebbe stupido), dico solo che spostare l’occhio di bue su particolari o territori inesplorati alla lunga ravviva la vitalità di entrambi i soggetti. Se ChiScrive è "sincero", ChiLegge lo percepisce. Son dell'idea che le frasi di un romanzo o racconto o quel che è, se non trasmettono a ChiLegge un fremito, un "No, non sto semplicemente leggendo, sto danzando sotto le bombe!", son da eliminare. Pussa via, sciò!, frase sterile non sei benvenuta!
È catartico cancellare, fa molto "Un giorno credi di esser giusto / e di essere un grande uomo / in un altro ti svegli e devi / cominciare da zero."
Poi sì ok capita di terminare un capitolo, sentirsi dire "carino questo passaggio” e non eliminare nulla lo stesso. Esempio: nel romanzo attuale (in fase di editing) un personaggio vorrebbe urlare, ma a causa degli effetti dell’acido lisergico non riesce a muovere le labbra. Per “spiegarlo” m’è uscito un termine ai limiti della paraculaggine, me ne rendo conto, però rimane lì dov’è per motivi vari.

Il dodo riconosce la voce di Richard, ancora lui; le gambe trrremano, prova a s.o.s.pirare per non cedere alla provocazione ma capisce che il morbo del terrore s’è già insinuato all’interno del corpo: la bocca è cucita.
xxCUxxCIxxTAxx.

Quindi boh, se non urti ChiLegge perdi l’occasione di venire in contatto, di aprire una crepa in quel maledetto muro.
Voglio dire: quando leggi frasi che ti portano a dire“Anche io la penso esattamente così”, non percepisci una sorta di raggiro? Al contrario, scoprire le motivazioni di pensieri distanti o sfumature fino a prima inesplorate: quant’è godurioso? Lì sì che le parole bucherellano il muro, tanto da lasciarci passare le mani per toccare chi sta dall’altra parte.
Compiacere il lettore per un tornaconto è pericoloso; un po’ come le corse oltre il precipizio di Wile E. Coyote, che quando ha consapevolezza di camminare nel vuoto l’illusione sfuma e precipitaaaahh.



E forse nell'era del tweet non regge neppure più il: “Scrivo perché ho qualcosa da dire”. Non senza uno studio/scopo dietro, perlomeno. Che tu abbia qualcosa da dire mi pare il minimo, caspita!, mica è un vanto. Dice la canzone de I Ministri: "Volevi essere pagato perché avevi qualcosa da dire / ora che ce l'hanno tutti puoi star zitto per favore?") Il rischio di produrre cose mirate a farsi piacere è altissimo: senza motivazioni più “forti” si rischia di buttar giù qualche frase e se non si ricevono abbastanza MiPiace ci si sgonfia, tipo quelle storie d’amore patetiche che per Tom Robbins sono latrati alla luna.
E dato che scrivere è fare a botte col destinatario, ChiScrive ha quantomeno l’obbligo morale di non sollazzarsi troppo tempo nei lussi, che st’infami se ne stanno all’erta e una volta in circolo poi a toglierseli di dosso è un casino.
Sotto con le limitazioni per restare in tensione, dunque:
Non posso/voglio concedermi il lusso di usare frasi fatte,
di scordare il perché di alcune cicatrici,
di essere felice per troppo tempo,
di dirmi “Ok, buona la prima” (Suvvia liuk, stai scrivendo un romanzo non stai registrando un onetwothreefour punk),
di fingere che scrittura e musica siano distinte (ci sarà un motivo se alcuni scritti toccano le corde dell’animo, no?),
di essere sempre coerente, che senza errore non si evolve (sospetto che la Musa sia una puttana e che tutti quei paletti/limitazioni coi quali convivo siano facilmente spostabili, all’occorrenza. O forse la Musa è casta&pura, la colpa è di quando scivolo in periodi di sordità ai buoni consigli, tipo Don Camillo che parla al crocefisso senza ricevere risposta.)

E dunque: buon fight club letterario a tutti.
Io, nell’attesa di trovare un editore, faccio scorta di bende e cerotti.
Speranzoso di raggiungere un buon numero di lettori, perché no: le risse sono affascinanti.