Il
mio cellulare – così antiquato da non riconoscere neppure col T9 il termine
app, per dirne una – ogni volta che cade resetta la data al giorno in cui è
stato acquistato.
Oggi
sul display indica fiero 27 may 2011, eppure il calendario ha un puntino rosso
su Santa Ermelinda, 29 ottobre 2014.
Io
mi sento a metà strada, non a due giorni da Halloween, a due giorni dal mio
trenta(+X)esimo compleanno.
L’unica volta che ho scritto un qualcosa sul 31 ottobre
ero diciannovenne, una vita fa. Allora era tutto differente, avevo una musa
ispiratrice e le parole, quelle poche che conoscevo, sgorgavano senza fatica;
anche ora ho la Musa, ma non mi si fila di striscio, non ha il mio numero di
telefono, indossa parrucche attira-quarantenni, l’ho vista un pomeriggio appena
e se camminassi tra la folla non mi riconoscerebbe. Roba da trallallà.
Ho
imparato però qualche termine in più, nel frattempo.
Esacerbare,
per esempio. Che per la cronaca significa ‘profondo malessere’, ‘inasprirsi’, o
giù di lì.
Ma
non per lei o per il compleanno o per i graffi di Zooey quando dormendo la
sposto da sopra la mia pancia: insomma, in questi ultimi anni un po’ di
ricerche sul significato dello scrivere le ho compiute, qualcosina credo di
aver afferrato col retino delle buone intenzioni.
L’amarezza
sta nel non riuscire ancora a cogliere il Disegno, nel non comprende come sia
possibile che la stragrande maggioranza di chi scrive lo fa per sentirsi dire
‘bravo/a’ e non per scuotere l’albero della coscienza di chi legge.
Ah,
un’altra parola che mi piace è: Disarmante.
Pure
alla Musa garba, ne sono sicuro.
Dicevo:
l’obiettivo dello scrivere.
Che
è un po’ una domanda cretina quando te la pongono: “Perché scrivi?” è come
chiedere a un rocker “Perché suoni?” o a Bolt “Perché corri?”
In
quel caso estrai la risposta in politichese da aria fritta oppure ricicli un
qualsiasi aforisma trito e ritrito, col timore che pure moccia o volo l’abbiano
già scopiazzato nei loro cosi rettangolari in libreria.
Meglio
il silenzio o la faccia da triglia, in definitiva. O rispondere “Perché bisogna
pur vergognarsi di qualcosa no?” Di solito funziona.
Quando
invece te la poni da solo cambiano le prospettive: perché scrivi, qual è il tuo
obiettivo?
Per
ampliare l’ego, per sostituire la fama alla fame, per il conto corrente, per
fingere di avere in testa più idee che capelli bianchi?
La
verità è che nonostante i millemila libri sull’argomento, non esiste alcun
Sutra del Loto riguardante la scrittura. Amen.
Per
quel poco che ne so la risposta è mutevole, ogni giorno io come tutti sono
differente.
Le
cellule del nostro corpo nascono e muoiono in continuazione, le convinzioni di
quando eravamo bambini sono probabilmente evaporate col passare delle stagioni.
A
quattordici anni, per il mio primo concerto indossavo il gilet dei Guns ‘n
Roses con tanto di bandiera americana, ora lavoro per i russi. E non stravedo
per entrambi, tra l’altro, ma tant’è.
All’alba
dei miei trenta&qualcosa anni, il perché scrivo è ancora da definire per
bene ma l’obiettivo è chiaro: esistono possibilità infinite nascoste tra le
sfumature di ciò che viviamo, baby. Perché limitarsi al sentito dire?
Ci
stiamo scavando una fossa di blablabla faicosì faicosà questosì questono
blablabla e nemmeno ricordiamo chi è stato a passarci la pala. Proseguiamo a scavare
per inerzia e più ci inabissiamo più cresce la convinzione che “Toh!, ma tanto
cosa mi impegno a fare, il cielo e la felicità sono troppo distanti..”
Credo sia questa la missione dello scrittore: dare alla
nostra vita, attraverso parole e immagini, un paio di occhi nuovi. Ravvivare i
sensi, fare un bagno turco all’anima.
(Che
ne so, quando ho visto la Musa per la prima volta c’era un ragazzetto che per
due ore è restato seduto di fronte a lei mentre io le ero accanto e non la
guardavo direttamente eppure potrei descrivere almeno dieci dettagli più di
chiunque altro lì presente su come lei stava modificando l’ambiente attorno
così, subito, dalmodo in cui inclinava
il foglio a come arricciava la foglia, da come si spostava sulla sedia allo
sguardo che vagolava oltre verso il prato, nessun problema. E tutto ciò grazie
ai libri letti - oltre alla sua bellezza e ai maledetti feromoni, of course.)
È
questa la missione, che detta così oh yeah fa molto Blues Brothers,
dell’imbrattare moleskine o file .doc e .docx.
Donare
al lettore due fottutissimi occhi nuovi, da mettere nel taschino nel portafogli
o nella borsetta Desigual dopo che la lettura è terminata e si è pronti
nuovamente ad affrontare la vita.
Sarà
gratificante, quando ci riuscirò. Ma la realtà è che della gratifica me ne
frega zero, lo si fa perché si deve. Punto. Stop. Il resto sono numeri da
classifica su Amazon o articoli autoreferenziali scritti con l’inchiostro
simpatico a pagina settecentocinquantadue de La Stampa.
Sì
ok farebbe anche piacere scoprire che PER ADESSO NO è al primo posto su
Bookrepublic – a proposito, fino al 10 novembre LibroMania mi ha lanciato in
promo a € 1.49 – ma un sorriso un commento o un pensiero che sgorga sulle
labbra del lettore vale infinitamente di più.
Cosa
dovrebbe fare – sempre secondo me sia chiaro - il buon scrittore quindi?
Beh,
immaginatevi New York qualche anno fa durante l’11 settembre, per dirne una.
Da
un qualche grattacielo in linea coll’imminente doppio crollo c’è una persona
alla finestra che osservando inerme la scena ingloba in pochi istanti tutte le
sensazioni orribili di una vita, al punto da chiedersi il senso di continuarla.
Ma
quel paio di occhi nuovi se ne fregano, incorporano il grandangolo e lo zoom,
mettono a nudo l’ambiente attorno per intero senza limitarsi al centro
dell’attenzione, spostano il focus continuamente proponendo in ogni istante
infinite variabili sull’interpretazione della vita.
E
quando il lettore scoprirà le memorie di quello scrittore non potrà fare a meno
di emozionarsi, stupito di come lui stesso non abbia notato certi dettagli –
“Ed erano lì!, sotto il naso!”
Finito
il racconto, la vita di chi legge sarà comunque differente per un variabile
periodo di tempo.
Mentre
le torri crollavano, da qualche parte, a pochi isolati, l’osservatore è
riuscito a scorgere con la coda dell’occhio il giovane arabo che col sorriso
stava aiutando l’anziana newyorkese ad attraversare la strada, dopo averla
notata in difficoltà nel trasportare il carrello della spesa. Che è una frase
articolata e malscritta ma il senso è un po’ sempre quello che ci ha insegnato
De Andrè: ‘Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior.’
Un
racconto zeppo di quelle frasi che il lettore vuole leggere che senso ha? Non
lascia nulla, è un po’ come ascoltare carloconti mentre si sta cenando.
Se
sei un bravo scrittore riuscirai a far capire che tutto può essere il contrario
di tutto, nei libri come nella vita.
Magari
riuscirò in qualcosa del genere anch’io, o forse no. Uno ci prova, perlomeno.
Non
è poi così importante se prima non decidiamo di posare la pala (possibilmente senza
scattare un selfie nel frattempo..) e iniziamo a vedere le cose con occhi
nuovi.
Fine giornata, una di quelle che forse
è la pioggia, forse il mio continuo restare invisibile schivando
testardo le secchiate di colori che mi gettano alcune persone, forse
è il ripetersi di monasteri senza ancora aver formulato in testa La
domanda, insomma: mi sento a mio agio in Nepal. Ma sono fuoriluogo
anche qua.
16
Arrivato di fronte a una fontana, mi
donano una moneta.
"Lanciala nel secchio in mezzo. Se
lo centri, il tuo desiderio si esaudirà."
Ho visto un bel po' di gente lanciare
senza successo, so di avere una discreta mira eppure quando la
ragazza accanto a me si è rabbuiata per aver sprecato il lancio le
ho donato la moneta d'istinto.
"Tieni. Ti cedo il mio desiderio",
le ho detto.
Che frase da sciocco!
Tra l'altro, cosa potrei desiderare se
manco so chi sono? Ad agosto l'ho vista la stella cadente dal balcone
di casa e anche allora non ho pensato a nulla.
Mi suona strano desiderare qualcosa in
una terra che il destino ha voluto visitassi forse proprio per
staccarmi dal desiderio.
Cosa dovrei dire, cosa si aspetta la
gente che dicessi?
"Ti prego (chi, poi, con
esattezza?!?) fai in modo che venda milioni di copie col romanzo?"
Che tristezza, non è un desiderio, è
una imposizione verso gli altri.
Molti desiderano la felicità per i
propri famigliari, ma pure in questo caso mi sembra una forzatura, un
concetto troppo soggettivo.
Nepal, ho capito che mi stai
risintonizzando le frequenze; io non pretendo grandi cose, giusto un
segnale che possa perlomeno intuire. Era la ragazza scomparsa nel
fumo, il segno? Che stupido.
Liuk, divertiti. Mi han detto che la
felicità sarà una naturale conseguenza, che imparando a sorridere
uno poi non è più sconvolto dai sorrisi di risposta.
17
"Non essere troppo cerebrale. Non
interpretare ciò che leggi per filo e per segno. Dimentica la storia
dei desideri, pensa piuttosto a ciò che vorresti essere. Il medico
che vorrebbe essere giardiniere non è un medico felice."
Sono ancora indeciso se giudicare i
nepalesi troppo saggi o fancazzisti: tergiverso. Magari è la stessa
cosa.
18
Oggi sono stato in un tempio tibetano
femminile di Vattelapesca, non ricordo il nome del paese.
Ho avvertito un'energia differente, gli
occhi che pulsavano. Non è suggestione. Oramai sono in questa terra
da qualche giorno e inizio a capire quali leve devo spingere. Davanti
a una statua coi denti aguzzi ho domandato non più chi sono ma chi
potrei diventare.
Il tutto come sempre a occhi chiusi –
voglio dire: nei templi c'è silenzio e si cammina scalzi, dopo un
po' si impara anche a vedere senza guardare.
La statua mi ha risposto.
Ok, sto imparando pure che la risposta
è dentro di me e quindi ciò che ho sentito in reatà sono le mie
parole con la sua voce e blablabla, non importa. Ho visto tutto in
modo chiaro. Sono sereno.
All'uscita ho imbrattato un poco il
moleskine guardando i bambini monaci giocare a palla schiava.
Non so ancora chi sono ma ora so chi
potrei diventare.
19
È l'ultima notte di settembre e oggi
ho visto come si forma un lago di sangue: se avessi avuto una
telecamera avrei potuto formare un time lapse un pochino splatter ma
dubito che i più apprezzerebbero il risultato. In effetti lo straaap
di una gola è impressionante, anche dopo averne sentiti decine.
Dicevo: è l'ultima notte di settembre,
sono a Bakthapur, un paese splendido.
Mi hanno avvertito di dormire coi
tappi, che dalle 4 i monaci e i fedeli inizieranno le preghiere nel
tempio dedicato a Shiva, casualmente proprio accanto all'ostello.
Potrei fingermi lui e per placare la
mia ira richiedere 108 caprette da sacrificare ma insomma, di sangue
e sgozzamenti vari ne ho visti fin troppi oggi, può bastare. Mi
hanno spiegato che sacrificare animali per quest'occasione non è
solo un onore ma anche il modo per mangiare carne. Per un popolo
poverissimo che vende gli animali allevati per ricavare qualche
rupia, la festa in questione è l'unico giorno dell'anno in cui
avranno un menù non da vegetariani coatti. Natale e Pasqua in una
botta sola.
Oggi è stata dura: vedevo i figli dei
macellai sguazzare a piedi nudi nelle strisciate di sangue, intorno a
file infinite di fedeli che aspettavano il turno di venerazione con
il loro animale e la ciotola delle offerte. Si narra che dopo la
morte, se non abbiamo compiuto una buona vita, ci si dovrà
reincarnare 8 milioni e 500 mila volte in altre forme prima di
tornare umani e avere una seconda possibilità. Il sacrificio animale
è visto anche come un modo per velocizzare il tutto.
L'induismo, pur se primitivo per alcuni
aspetti, è affascinante. E i gong continui sono estatici.
Questa è la mia ultima impressione di
settembre 2014: siamo un continuo divenire.
20
Una donna rende lo zaino e il
portafoglio dimenticato da un turista.
Sento dire "Certo che sono onesti,
per essere così sporchi."
"È più sporco il denaro",
commento.
E riprendo a camminare, per le strade
di una cittadina ricostruita dopo il terremoto del '34, a pochi
chilometri dal confine col Tibet. Continuare a camminare, sorridere
ai bambini, sorridere a me stesso, amare il Nepal, amare te, amare
me. E dopo, superata la risaia, riprendere il cammino. Con un nuovo
dettaglio da aggiungere al Mandala della vita.
21
Come ogni viaggio esige, questa volta
seduto su un furgoncino Wolksvagen anni 70 ascolto The times are
a-changin' attraversando un villaggio davvero bellino. Il caso vuole
che sia capitato durante la raccolta del riso. Sono seduto e osservo,
con l'armonica di Dylan a scandire il ritmo della giornata. È una
bella sensazione.
22
Bhaktapur. Vista dalla terrazza, noto
che il cielo è un'esclusiva per falchi e aquiloni da battaglia.
Vedo l'ombra di un rapace volteggiare
tre volte sopra di me, sopra la quiete della città. Immagino sia la
mia Lady Hawke. Non alzo lo sguardo per controllare.
23
Il Nepal è uno specchio frantumato e
in ogni riflesso c'è un io differente.
Masticare il Nepal: concepire la
violenza estraniando l'atto in sé dell'uccidere. Non è sadismo ma
un gesto di ineluttabile sopravivenza collettiva. Compreso questo, il
ci-ciak delle suole quando calpestano il sangue rappreso non è che
uno dei mille suoni che accompagnano gli eventi.
24
Luca, devi focalizzare.
Focalizza, liuk.
25
L'obiettivo di oggi è la Pagoda per la
pace nel mondo. Per raggiungerla sto attraversando una foresta
tropicale, piena di zanzare libellule giganti farfalle blu scimmie...
Fa caldo, quel caldo che sudi solo nel
pensarlo. Eppure. Chissenefrega. C'è questo panorama che,
insomma..., si domina la valle di Kathmandu, e dire "Kathmandu"
continua a riempirmi la bocca di sogni. Sono fermo al bar fissando
l'Universo, qua a Pokhara è un via vai continuo di farfalle!
Leggo che il luogo è stato scoperto
dagli hippie durante gli anni 70, c'è un senso di pace che nessuna
umidità può distorcere.
26
Sua Maestà, Everest.
L'Annapurna, la Dea dell'Abbondanza, mi
è apparsa un giorno alle 5 della mattina, così, come le cose belle,
senza chiedere permesso.
L'Everest è pazzesco, si erge dietro
un'altra vetta come un discolo in punta di piedi che nella foto di
fine anno si piazza in ultima fila, non tanto per vergogna quando per
poter fare le corna a quello davanti.
Vedere tutta la catena distesa al di
sopra delle nuvole non mi ha annullato come credevo, piuttosto ho
provato un qualcosa simile a gratitudine.
E poi, l'alba: se esistono momenti che
nonostante il perpetuarsi ancora non si riesce a descrivere con
esattezza, lei è tra questi. Ogni volta si manifesta con dettagli
differenti, è Angelina Jolie che ti si presenta firmata Armani, nuda
o Desigual a seconda di variabili sconosciute.
L'Everest che trapassa le nuvole e
senza movimenti percettibili saluta con l'ostentazione del pavone mi
ha riempito gli occhi. Era lì, a un passo dai cumulonembi e a pochi
metri da me. Per un po', giusto il tempo di preparare la macchina
fotografica, ho pensato che il rapporto che si stava instaurando tra
l'Everest e me era pressoché identico a quello tra me e l'amore:
entrambi, per motivi differenti, siamo orizzonte.
27
Cosa mi ha insegnato il Nepal; le
statistiche dicono che è la settima nazione più povera del pianeta.
Kathmandu la seconda al mondo più inquinata. Potrei sciolinare
notizie ricavate dai siti italiani (eggià, il belpaese dei
sessanta&rotti milioni di abitanti che si credono superiori e al
sicuro dai cattivi mistificati al tg...), la domanda che mi porterò
al rientro sarà sempre la stessa:
può essere considerata inferiore,
rispetto alla tua – sì, alla tua, di te che ora leggi – una
nazione popolata da individui – non importa se donne uomini vecchi
bambini – che vedendoti provano la naturale Gioia Empatia
Cordialità nel pronunciare a mani giunte – con la bocca e con gli
occhi – Namasté? Io, io credo di no. Davvero. Non a caso Buddha è
nato in Nepal. Non a caso la nazionale nepalese di calcio è la più
scarsa del mondo. Ma questa è un'altra storia...
28
Una sola solitudine
Tra irrealtà bucoliche.
29
La situazione che credevo di dover
risolvere, anche grazie al viaggio, era l'eliminazione – o
perlomeno un abbassamento – delle aspettative da parte degli altri,
soprattutto quando compio gesti a me inusuali. Il Nepal mi sta
insegnando tantissimo. Ho iniziato a capirlo quando ho ceduto il mio
desiderio a quella ragazza: è stata a mente fredda una azione che
non ha spostato gli equilibri del mondo, eppure nei film qualcosa
sarebbe accaduto.
La vita, per fortuna, non è un film.
E il Nepal, con la fierezza dei suoi
dei – Shiva, in primis – mi ha aperto con la forza gli occhi, in
attesa che mi spunti il tezo (oltre a quello che ho tatuato sulla
spalla).
"Agli altri di ciò che fai non
frega niente, ma proprio per questo sii buono, giusto, soprattutto –
nel bene o nel male – cosciente e consapevole delle tue azioni.
Fallo per te, ricorda allo stesso tempo che non sei che sabbia che
fluttua nel vento cosmico, l'ennesima entropia di te stesso."
30
Non credo che la sporcizia di Kathmandu
sia sintetizzabile come semplice pattume, che non sia un qualcosa di
casuale, al di là della religione e altre considerazioni razionali.
Il propagarsi di virus non è, nel caso di questa città, un qualcosa
di fine a se stesso.
Kathmandu non è un ricettacolo di
virus,
Kathmandu È un agente
scatenante.
È probabile che come buona parte delle
cose inoculate invisibilmente durante la nostra vita, al ritorno a
casa, quando il maldigola e il raffreddore saranno ricordi lontani,
senza preavviso esploderà.
Già mi immagino, sveglio in ritardo
con l'ansia di andare al lavoro, bagnarmi la faccia e rialzando il
volto leggere KATHMANDU sullo specchio.
Non c'è medico che tenga, quando ti
svegli e scopri d'essere ammalato di vita.
31
Dall'aereo la mappa afferma che il volo
di ritorno è iniziato da 3 ore e 16 minuti. Dallo schermo davanti
riguardo – e che effetto maestoso quando si rientra - Into the
wild. Ma mi attira di più il finestrino: amo l'immenso quando decide
di rivelarsi.
Durante i primi viaggi mi soffermavo a
osservare le nuvole, su come l'istinto ti volesse sopra di loro a
correre senza scarpe. Ora ho imparato a trapassarle: le coordinate
dicono che sto sorvolando l'Iran, ed è bellissimo. Bel-lis-si-mo.
Chissà attraversala a piedi, quante cose avrà da insegnarmi. Si
notano le catene montuose, le strade che chissà dove vorrebbero
accompagnare i viaggiatori.
A volte compare quello che potrebbe
essere un agglomerato di case. Vorrei vederle, sì.
Il Nepal ha spazzolato via la pelle
morta che mi portavo appresso coi pregiudizi.
Riguardo quella strada tortuosa dal
finestrino; è la strada dentro ognuno di noi, ne intravedo le
biforcazioni continue e i punti ciechi e le buche e il brillio dorato
dietro la montagna dove pare la strada finisca.
Ma poi, chissà. Da quassù non si
capisce bene se il dorato è dopo, all'arrivo, o è la strada stessa.
Il pianeta che calpestiamo contiene
diversi livelli di percezione (il Nepal è strada ma pure cultura,
sorrisi, sangue, odori...) ed è fantastico rendermi conto che sono
cosciente di sporcarmi di vita. Puoi, posso, arrivare ovunque, quando
il viaggio parte dal cuore.
Si diviene immensi, proprio come le
distese offerte dal finestrino dell'aereo.
... Spero che un giorno leggerai anche
questi pensieri, Persona-che-incontrerò, magari ti piaceranno.
Nel frattempo divertiti, amore mio. Io
ora torno a casa, ho una gatta che mi aspetta.
Ci sono viaggi che scelgono te e non
viceversa, o più sinteticamente "c'è pane e Pane", come
ripete da tempo rincobanderas.
C'è un lavoro che pare più un
trascinarsi verso la fine del mese accontentandosi di una busta paga
e del solito comunicato in bacheca stile "Non vi preoccupate la
valuta partirà da... sicuri della vostra comprensione...",
c'è uno specchio che al mattino prima
di riflettere l'immagine di me con lo spazzolino in bocca si appanna
per comporre scritte del tipo "Sicuro di voler vedere lo
scempio?",
c'è una gatta che quando preparo la
tisana della buonanotte accartoccia la bustina e me la lancia, con
l'espressione che fa tanto "Dai liuk, gioca un po' tu ora, ne
hai bisogno",
c'è un telefono che resta più spento
che altro,
c'è un secondo romanzo che si sta
incartando su una dei tre protagonisti e mi fa dannare,
c'è un agosto trascorso in ufficio a
far chissàcheccosa,
c'è una bocca che continua a essere
amara e piena di saliva, da chiedermi "Ho la rabbia?", da
chiedermi "Sputo saliva o sputo sentenze?", da chiedermi
"Ho bisogno di una vacanza?", da rispondermi "Sì -
Non so - Sì."
Vacanze, quindi.
Vacanza del tipo che non torni più, o
meglio: ritorni a casa così differente che è come se l'io della
partenza fosse rimasto laggiù e al suo posto si fosse presentato un
clone verosimile.
C'è pane e Pane, dunque.
E c'è viaggio e Viaggio.
Il mio si chiama Kathmandu, Nepal.
Una di quelle città che solo a
pronunciarle mi si riempiono gli occhi.
E da profano, non posso fare altro che
ricopiare le stupidaggini scarabocchiate sul moleskine,
io che di induismo e buddhismo so quasi
nulla,
io che a malapena so collocarlo il
Nepal e mi limito ad adorare le parole che non finiscono con una
vocale,
io che del Nepal conosco più che altro
la diceria sull'erba che cresce per la strada,
io che quando ho letto "Il fuso
orario è tre ore e quarantacinque minuti" ho pensato "Ma
tu guarda, s'è fatto tardi."
E allora, si parte. Vediamo che
succede.
1
Arrivo a Bodnath, dove c'è uno stupa
gigantesco. Ah sì, un'ora dopo l'atterraggio già imparo una parola:
stupa. È una costruzione con raffigurato lo sguardo del Buddha su
tutti i lati, almeno credo. Dovrebbe essere un monumento spirituale.
All'interno mi pare di capire che non ci si entra ma bisogna girarci
intorno in senso orario e farsi trasportare dalle preghiere. Ancora
ci capisco poco, quel tipo di poco che più ti sforzi e meno
comprendi. Forse il segreto è proprio questo: lasciare inizialmente
il razionale da parte.
Liuk, ricorda: l'uomo era già
saldamente attaccato alla terra ben prima di conoscere l'esistenza
della gravità.
Il Nepal mi accoglie così, tra rumori
di campane, preghiere e aerei a disturbare il tutto, moderni serpenti
che offrono dall'alto le mele occidentali della vanità.
Scopro che il Dalai Lama quando disegna
il Mandala sul pavimento col riso (altro termine nuovo: è un cerchio
della vita, da quel che sto capendo nelle prime ore) alla fine della
cerimonia getta i chicchi al fiume. Significa che non siamo nulla,
mi dicono. Faccio di sì con la testa, scatto una fotografia e resto
in silenzio, notando un monaco tibetano estrarre l'iPhone da sotto la
sua veste. E che cavolo, pure lui ce l'ha, dovrò farmi delle
domande.
2
Entro in un tempio induista con tanto
di scritta Please Mind Your Head e taaack!, capisco subito che il
Nepal non sarà raccontato dall'occhio della macchina fotografica o
dalla raccolta di sillabe che continuo a gettare nel diario. Roba che
rischio una storta ogni treperdue ma le sensazioni sono incessanti,
in questo luogo. Non solo foto o parole, dicevo. È un insieme
ulteriore di suoni, di odori.
Chiudo gli occhi e mi immergo. Il
ricordo a occhi chiusi elimina il superfluo, non resta che aspettare.
Il Nepal, come me, è un diesel. Bene.
3
Ho raggiunto il luogo delle pire, lo
chiamano la Varanasi del Nepal e presto intuisco il motivo.
Il fumo denso brucia gli occhi ma devo
vedere meglio lo stesso, sono arrivato da poco e da occidentale medio
tendo a considerare la vista come il senso più importante. Se non
vedo non esiste, fingendo di ignorare che gli occhi scorgono solo il
passato. Per dire: vediamo il sole tramontare quando è già
tramontato da qualche tempo. Sono sicuro che a fine viaggio qualcosa
imparerò, son preso bene. Comunque, dicevo: i corpi vengono lavati –
vabbe', dire lavati in un fiumiciattolo sporco forse è una
esagerazione... - prima di essere ricoperti da più strati di un
qualche tessuto e ogni tanto sulla pancia noto che poggiano qualcosa
tipo carbone, non sono sicuro. Alla fine il corpo rimane una sorta di
bozzolo, scorgo solo il viso del defunto. A bocca aperta.
"Come
mai?", mi domando. Il corpo viene poi deposto sulla pira e, mi
hanno raccontato, il primogenito darà inizio alla cremazione. Con
una torcia brucerà il cadavere. Dalla bocca, appunto. Dalla bocca,
caspita.
Ci vogliono circa tre ore affinché
non resti altro che cenere, mi informano. Ogni tanto sento dei
crepitii e immagino siano intestini e ossa che sfrigolano da sotto
gli strati di legna. Non riesco a smettere di guardare e non vorrei
guardare allo stesso momento, mi sento in parte Alex DeLarge in piena
Operazione Beethoven, ma senza costrizioni.
Scopro che gli induisti venerano circa
33 milioni di divinità e per la prima volta, guardando ancora le
pire infuocate e le baracche in lontananza dei cannibali (cannibali
sul serio intendo, si tratta di asceti che vestiti di nero escono di
notte per cibarsi dei cadaveri. Secondo loro nutrendosi di quella
carne possano ampliare anche le anime, o qualcosa del genere) inizio
a credere che non sia tutto poi così assurdo.
Non per uno che in
fondo teoricamente alla domenica dovrebbe ingerire senza masticare il
corpo di Cristo.
Il fiume è collegato al Gange, i
rimasugli verranno gettati e lo raggiungeranno.
"Molti nepalesi vivono però in
montagna, sopra i 4mila metri, come possono raggiungere in tempo il
paese prima che i morti si decompongano?" Altra domanda.
"Li tagliano a pezzi e lasciano
che gli uccelli facciano il loro corso."
"Ah, ok."
Mi viene in mente che qualcosa del
genere l'avevo letto in un libro di Tiziano Terzani e d'improvviso un
senso di sacralità al tutto mi quieta.
Fanno sparire il corpo
proprio come quel Mandala di riso del Dalai Lama, forse è questo il
senso?
Con questa domanda abbandono le pire, con in testa l'assurda
scoperta che l'odore dei morti è decisamente più sopportabile del
sudore dei vivi nel tram o al cinema.
4
Di fronte ho una statua adagiata
sull'acqua che rappresenta Vishnu in una delle sue innumerevoli
rappresentazioni, Narayan. Quando ho sentito pronunciare Narayan m'è
venuto in mente un vecchio brano dei Prodigy, da quanti secoli non li
ascolto più! Inizio a comprendere che quei 33 milioni di divinità
sono per buona parte varie rappresentazioni di Vishnu e Shiva. Il
secondo è bello tosto e guerrigliero e ha una moglie di nome
Parvati, che a sua volta possiede varie incarnazioni più o meno
battagliere tra cui Kali. Ci capisco ancora pochissimo ma ogni passo
è sempre più fermo e deciso, mi piace il senso che trasmette questa
terra.
La statua che ammiro sarà lunga circa
5 metri, sopra di essa due bambini la stanno truccando e attorno una
fila di fedeli con le ciotole piene di fiori e riso (mi pare) sono in
attesa che sia pronta per i loro doni. È pieno di serpenti giganti
che sostengono Narayan e la musica che sento arrivare da chissà dove
mi pare pronunci il nome di Krishna, ma anche in questo caso non sono
consapevole del senso. Non importa. Chiudo gli occhi ascoltando il
suono delle litanie in loop e immagino la giornata che mi si
prospetta. Ho una visione, dopo aver fissato il bracciale a forma di
serpente su uno delle braccia della divinità: sangue, sangue, dolore
infinito e sofferenza. E mentre le mie membra vengono strappate,
prende piede la consapevolezza che tuttò sarà più armonioso, dopo.
E poi ancora. Se vedessi volare in questo momento un'araba fenice non
mi stupirei affatto. A patto che sappia riconoscerla, intendo.
5
Primi giorni in Nepal e già sto
perdendo del tutto quel poco interesse che avevo nel fotografare me,
sono poco renzi per fortuna. Giusto un paio e stop. Non so, non ha
senso.
È tutto così impregnato di tutto che
tutto non ha senso.
E cosa significa il proprio corpo
schiacciato bidimensionalmente in una foto, per dimostrare che cosa,
a chi? Io, per quanto l'io stia evaporando in Nepal, so di essere qui
ora adesso. Mi sento molto George Harrison a passeggio per la Freak
Street di Kathmandu, è una sensazione decisamente da yeah.
Chissenefrega delle mie foto, certe cose le ricorderò comunque e se
la gente non ci crederà, pazienza.
6
Nepal. Se è vero che da ogni viaggio
non si torna mai del tutto, questo è ancora differente. Perché per
tornare bisogna prima partire, e sì!, questa volta tra odori musiche
e rappresentazioni di Vishnu... questa volta sono in viaggio per
davvero.
7
Nella Durbar Square di Katmandu vive
una dea, la Kumari. Mi fa strano essere così mal vestito di fronte a
una dea. Avrà otto anni, forse meno. Si sta affacciando dal balcone,
come un papa che non fa discorsi. C'è chi ride di ciò, chi la
venera in silenzio. Tutto questo però per quanto mi riguarda non
cambia le cose, in fondo la terra era tondeggiante anche quando la si
credeva piatta. Lei è una dea, punto. E indirettamente mi ha
guardato.
8
Sono finalmente giunto alla Freak
Street e come da copione è la zona di Katmandu meno interessante;
nessuna radio a tutto volume ad accogliermi coi Beatles o i Floyd,
giusto qualche fattone, una ragazza italiana che ora abita a Varanasi
col moroso e un ristorante dal nome Penny Lane. Brutto come le
aspettative spesso ingannano. Le aspettative sono proiezioni di
emozioni, non la realtà. Ma cos'è la realtà?
9
Da adolescente impazzivo per un gioco
sulla PS2, Ico. Una poesia, forse qualcuno se ne ricorda.
Era pressappoco la storia di un ragazzo
maledetto che doveva prendersi cura di una fata e ogni volta che i
due si muovevano non lo facevano autonomamente ma si tenevano per
mano.
Vagolando per la città m'è tornato
in mente questo: molti ragazzi del posto camminano ancorandosi l'un
l'altro come fossero cose preziose. È poesia pura, questa.
Ho chiesto il motivo, la risposta è
che sono contenti di vedersi e non vogliono allontanarsi.
Già: la condivisione, che così tanto
stride con l'individualità, la quale a sua volta stride con
l'annullamente di sé. Questo paese mi appare come un continuo
stridere le convinzioni, ma in tutto questo vedere due ragazzi in
armonia fa bene al cuore, alla mente, o a quel che è.
Chissà cosa scriverebbero su twitter i
nipotini di salvini se fossero qua. Ma poi, chissenefrega, meglio
scordare in fretta il luogo di partenza.
10
Ho guardato Shangri-La negli occhi,
l'ho appoggiata sulle ginocchia. E l'ho trovata amara. E l'ho
ingiuriata, proprio come Rimbaud con la Bellezza.
Sento spesso parlare dell'inferno come
di un luogo invisibile, espiatorio senza appello finale, di un luogo
– appunto – infernale. Questo perché si dà per scontato che sia
peggio dei luoghi terrestri.
La valle di Kathmandu è infernale,
ecco.
Sembra che un qualche dio abbia
rovesciato per dispetto uno scatolone di Lego, non posso credere che
quelle siano davvero abitazioni.
Guardi gli occhi delle persone che
infestano questi chilometri quadrati di latrine terre polverose cani
spiaggiati motorini col clacson perpetuo e ti chiedi "Ma com'è
possibile."
Shangri-La era un ipotetico punto di
arrivo, ma ciò che sto compiendo non lo è.
È un passaggio, un iter.
Il viaggio lo si compie e dura una
vita, lo si compie alla ricerca di sé. Per questo non potevo
pretendere fosse la meta. È un passaggio: bello, doloroso,
necessario. Un iter, appunto. Uno di quelli che più di altri
necessita di essere ruminato; per anni, chissà.
In fondo, cos'è il tempo?
Lo cantavano gli Ustmamò: "Che
cos'è l'eternità / se gli anni ottanta eran tanto tempo fa?"
11
Oggi ho meditato. Letteralmente.
Sono entrato in un tempo buddhista
(buddhisti, induisti, qua la tolleranza è di casa).
Insomma, ero seduto coi monaci,
entrando in punta di piedi perché non mi reputo mai un turista ma
allo stesso modo non riesco a trovarmi agiato in alcun luogo. Sono
stato lì dapprima seduto in silenzio ad ascoltarli, col gong
incessante vibrato da un bambino che lentamente ha preso sincronia
con la mia cassa toracica.
Cos'è il tempo, dicevo.
Il suono ha iniziato a partire da
dentro, è scattato un qualche cosa che a freddo proverò a
interpretare. Poi è accaduto un altro fatto.
Una stronzata, per chi leggerà, ma non
sono forse le stronzate a tenerci aggrappate alla vita?
Ho avuto la sensazione d'esser entrato
in sintonia con l'ambiente, con l'aria che vibrava nella stanza,
tanto che dopo un'ora la meditazione è terminata e un monaco ha
fatto cenno che per oggi era abbastanza. Ripeto, è una stronzata, ma
vedere un monaco terminare prima di me rimarrà un ricordo che mi
terrò caro per tutta la vita (probabile che quello fosse per lui un
semplice riscaldamento ma a essere importante è stato il gesto, of course).
Un pomeriggio mistico, per quanto
questo aggettivo sia solo al primo stadio, per me. Mistico.
Ho meditato coi monaci, per la miseria!
E mi sento bene; mi guardo i kanji tatuati sul braccio e sorrido.
Appartengono a una vita fa, una vita in cui ero me stesso ed ero
colui che non ricordo.
"Chi volli essere mi dimentica
Chi sono non mi conosce"
recitava il buon Pessoa.
È incredibile come certe frasi
imparate secoli fa d'improvviso prendano nuovi significati.
La via verso la conoscenza: non è in
fondo questo, il senso della vita?
E se trovassi – o meglio: se qualcuna
mi sopportasse – la persona con cui condividere il cammino, non
sarebbe più semplice? O forse rimarrei condizionato?
Inizio a credere sempre meno nel verbo
avere, assaporando il Nepal mi pare più una limitazione che altro. O
forse lo sono i verbi, tutti. Chissà cosa ne direbbe Siddharta. Che
tra l'altro qua è raffigurato magro, non come quei bonzoni dorati
che si trovano dalle altre parti. Ma ho tempo di riempire le lacune,
quando vorrò sapere. Per ora mi limito a osservare.
12
"Avere" è un verbo
"Amore" è un sostantivo
"Tu" è un soggetto
"Io" – senza te – non
sono.
13
È tutto troppo presto, troppo veloce.
Un po' come giungere all'illuminazione
e rimanere scottato.
14
Un villaggetto, credo Bungamati.
Una ragazza splendida cammina.
Io cammino in direzione opposta.
Ci sorridiamo.
Lei, sotto l'ombrello a ripararsi dal
sole, è bellissima.
Io fumo distaccato e indosso la
t-shirt blu di Neil Young quindi sono figo di riflesso.
Tre passi - non di più - e ho la
necessità di voltarmi, non che stia sognando!
Pure lei ha avuto lo stesso pensiero e
ci sorridiamo ancora.
La vita è magnifica. E pure io, quando
una persona mi sorride.
...
La leggenda narra che a quel punto Liuk
fece tre passi verso di lei e dal nulla comparve un intruso chiedendo
al nostro eroe se gli andasse di scambiare una sua sigaretta nepalese
con una camel. L'eroe accettò più per cortesia che altro e quando
la accese si accorse che della dea non c'era più traccia.
Il Nepal è anche questo, mi sa. Un
viavai di dee e scambiatori di sigarette nazionali marcate Surya.