Ci sono viaggi che scelgono te e non
viceversa, o più sinteticamente "c'è pane e Pane", come
ripete da tempo rincobanderas.
C'è un lavoro che pare più un
trascinarsi verso la fine del mese accontentandosi di una busta paga
e del solito comunicato in bacheca stile "Non vi preoccupate la
valuta partirà da... sicuri della vostra comprensione...",
c'è uno specchio che al mattino prima
di riflettere l'immagine di me con lo spazzolino in bocca si appanna
per comporre scritte del tipo "Sicuro di voler vedere lo
scempio?",
c'è una gatta che quando preparo la
tisana della buonanotte accartoccia la bustina e me la lancia, con
l'espressione che fa tanto "Dai liuk, gioca un po' tu ora, ne
hai bisogno",
c'è un telefono che resta più spento
che altro,
c'è un secondo romanzo che si sta
incartando su una dei tre protagonisti e mi fa dannare,
c'è un agosto trascorso in ufficio a
far chissàcheccosa,
c'è una bocca che continua a essere
amara e piena di saliva, da chiedermi "Ho la rabbia?", da
chiedermi "Sputo saliva o sputo sentenze?", da chiedermi
"Ho bisogno di una vacanza?", da rispondermi "Sì -
Non so - Sì."
Vacanze, quindi.
Vacanza del tipo che non torni più, o
meglio: ritorni a casa così differente che è come se l'io della
partenza fosse rimasto laggiù e al suo posto si fosse presentato un
clone verosimile.
C'è pane e Pane, dunque.
E c'è viaggio e Viaggio.
Il mio si chiama Kathmandu, Nepal.
Una di quelle città che solo a
pronunciarle mi si riempiono gli occhi.
E da profano, non posso fare altro che
ricopiare le stupidaggini scarabocchiate sul moleskine,
io che di induismo e buddhismo so quasi
nulla,
io che a malapena so collocarlo il
Nepal e mi limito ad adorare le parole che non finiscono con una
vocale,
io che del Nepal conosco più che altro
la diceria sull'erba che cresce per la strada,
io che quando ho letto "Il fuso
orario è tre ore e quarantacinque minuti" ho pensato "Ma
tu guarda, s'è fatto tardi."
E allora, si parte. Vediamo che
succede.
1
Arrivo a Bodnath, dove c'è uno stupa
gigantesco. Ah sì, un'ora dopo l'atterraggio già imparo una parola:
stupa. È una costruzione con raffigurato lo sguardo del Buddha su
tutti i lati, almeno credo. Dovrebbe essere un monumento spirituale.
All'interno mi pare di capire che non ci si entra ma bisogna girarci
intorno in senso orario e farsi trasportare dalle preghiere. Ancora
ci capisco poco, quel tipo di poco che più ti sforzi e meno
comprendi. Forse il segreto è proprio questo: lasciare inizialmente
il razionale da parte.
Liuk, ricorda: l'uomo era già
saldamente attaccato alla terra ben prima di conoscere l'esistenza
della gravità.
Il Nepal mi accoglie così, tra rumori
di campane, preghiere e aerei a disturbare il tutto, moderni serpenti
che offrono dall'alto le mele occidentali della vanità.
Scopro che il Dalai Lama quando disegna
il Mandala sul pavimento col riso (altro termine nuovo: è un cerchio
della vita, da quel che sto capendo nelle prime ore) alla fine della
cerimonia getta i chicchi al fiume. Significa che non siamo nulla,
mi dicono. Faccio di sì con la testa, scatto una fotografia e resto
in silenzio, notando un monaco tibetano estrarre l'iPhone da sotto la
sua veste. E che cavolo, pure lui ce l'ha, dovrò farmi delle
domande.
2
Entro in un tempio induista con tanto
di scritta Please Mind Your Head e taaack!, capisco subito che il
Nepal non sarà raccontato dall'occhio della macchina fotografica o
dalla raccolta di sillabe che continuo a gettare nel diario. Roba che
rischio una storta ogni treperdue ma le sensazioni sono incessanti,
in questo luogo. Non solo foto o parole, dicevo. È un insieme
ulteriore di suoni, di odori.
Chiudo gli occhi e mi immergo. Il
ricordo a occhi chiusi elimina il superfluo, non resta che aspettare.
Il Nepal, come me, è un diesel. Bene.
3
Ho raggiunto il luogo delle pire, lo
chiamano la Varanasi del Nepal e presto intuisco il motivo.
Il fumo denso brucia gli occhi ma devo
vedere meglio lo stesso, sono arrivato da poco e da occidentale medio
tendo a considerare la vista come il senso più importante. Se non
vedo non esiste, fingendo di ignorare che gli occhi scorgono solo il
passato. Per dire: vediamo il sole tramontare quando è già
tramontato da qualche tempo. Sono sicuro che a fine viaggio qualcosa
imparerò, son preso bene. Comunque, dicevo: i corpi vengono lavati –
vabbe', dire lavati in un fiumiciattolo sporco forse è una
esagerazione... - prima di essere ricoperti da più strati di un
qualche tessuto e ogni tanto sulla pancia noto che poggiano qualcosa
tipo carbone, non sono sicuro. Alla fine il corpo rimane una sorta di
bozzolo, scorgo solo il viso del defunto. A bocca aperta.
"Come
mai?", mi domando. Il corpo viene poi deposto sulla pira e, mi
hanno raccontato, il primogenito darà inizio alla cremazione. Con
una torcia brucerà il cadavere. Dalla bocca, appunto. Dalla bocca,
caspita.
Ci vogliono circa tre ore affinché
non resti altro che cenere, mi informano. Ogni tanto sento dei
crepitii e immagino siano intestini e ossa che sfrigolano da sotto
gli strati di legna. Non riesco a smettere di guardare e non vorrei
guardare allo stesso momento, mi sento in parte Alex DeLarge in piena
Operazione Beethoven, ma senza costrizioni.
Scopro che gli induisti venerano circa
33 milioni di divinità e per la prima volta, guardando ancora le
pire infuocate e le baracche in lontananza dei cannibali (cannibali
sul serio intendo, si tratta di asceti che vestiti di nero escono di
notte per cibarsi dei cadaveri. Secondo loro nutrendosi di quella
carne possano ampliare anche le anime, o qualcosa del genere) inizio
a credere che non sia tutto poi così assurdo.
Non per uno che in
fondo teoricamente alla domenica dovrebbe ingerire senza masticare il
corpo di Cristo.
Il fiume è collegato al Gange, i
rimasugli verranno gettati e lo raggiungeranno.
"Molti nepalesi vivono però in
montagna, sopra i 4mila metri, come possono raggiungere in tempo il
paese prima che i morti si decompongano?" Altra domanda.
"Li tagliano a pezzi e lasciano
che gli uccelli facciano il loro corso."
"Ah, ok."
Mi viene in mente che qualcosa del
genere l'avevo letto in un libro di Tiziano Terzani e d'improvviso un
senso di sacralità al tutto mi quieta.
Fanno sparire il corpo
proprio come quel Mandala di riso del Dalai Lama, forse è questo il
senso?
Con questa domanda abbandono le pire, con in testa l'assurda
scoperta che l'odore dei morti è decisamente più sopportabile del
sudore dei vivi nel tram o al cinema.
4
Di fronte ho una statua adagiata
sull'acqua che rappresenta Vishnu in una delle sue innumerevoli
rappresentazioni, Narayan. Quando ho sentito pronunciare Narayan m'è
venuto in mente un vecchio brano dei Prodigy, da quanti secoli non li
ascolto più! Inizio a comprendere che quei 33 milioni di divinità
sono per buona parte varie rappresentazioni di Vishnu e Shiva. Il
secondo è bello tosto e guerrigliero e ha una moglie di nome
Parvati, che a sua volta possiede varie incarnazioni più o meno
battagliere tra cui Kali. Ci capisco ancora pochissimo ma ogni passo
è sempre più fermo e deciso, mi piace il senso che trasmette questa
terra.
La statua che ammiro sarà lunga circa
5 metri, sopra di essa due bambini la stanno truccando e attorno una
fila di fedeli con le ciotole piene di fiori e riso (mi pare) sono in
attesa che sia pronta per i loro doni. È pieno di serpenti giganti
che sostengono Narayan e la musica che sento arrivare da chissà dove
mi pare pronunci il nome di Krishna, ma anche in questo caso non sono
consapevole del senso. Non importa. Chiudo gli occhi ascoltando il
suono delle litanie in loop e immagino la giornata che mi si
prospetta. Ho una visione, dopo aver fissato il bracciale a forma di
serpente su uno delle braccia della divinità: sangue, sangue, dolore
infinito e sofferenza. E mentre le mie membra vengono strappate,
prende piede la consapevolezza che tuttò sarà più armonioso, dopo.
E poi ancora. Se vedessi volare in questo momento un'araba fenice non
mi stupirei affatto. A patto che sappia riconoscerla, intendo.
5
Primi giorni in Nepal e già sto
perdendo del tutto quel poco interesse che avevo nel fotografare me,
sono poco renzi per fortuna. Giusto un paio e stop. Non so, non ha
senso.
È tutto così impregnato di tutto che
tutto non ha senso.
E cosa significa il proprio corpo
schiacciato bidimensionalmente in una foto, per dimostrare che cosa,
a chi? Io, per quanto l'io stia evaporando in Nepal, so di essere qui
ora adesso. Mi sento molto George Harrison a passeggio per la Freak
Street di Kathmandu, è una sensazione decisamente da yeah.
Chissenefrega delle mie foto, certe cose le ricorderò comunque e se
la gente non ci crederà, pazienza.
6
Nepal. Se è vero che da ogni viaggio
non si torna mai del tutto, questo è ancora differente. Perché per
tornare bisogna prima partire, e sì!, questa volta tra odori musiche
e rappresentazioni di Vishnu... questa volta sono in viaggio per
davvero.
7
Nella Durbar Square di Katmandu vive
una dea, la Kumari. Mi fa strano essere così mal vestito di fronte a
una dea. Avrà otto anni, forse meno. Si sta affacciando dal balcone,
come un papa che non fa discorsi. C'è chi ride di ciò, chi la
venera in silenzio. Tutto questo però per quanto mi riguarda non
cambia le cose, in fondo la terra era tondeggiante anche quando la si
credeva piatta. Lei è una dea, punto. E indirettamente mi ha
guardato.
8
Sono finalmente giunto alla Freak
Street e come da copione è la zona di Katmandu meno interessante;
nessuna radio a tutto volume ad accogliermi coi Beatles o i Floyd,
giusto qualche fattone, una ragazza italiana che ora abita a Varanasi
col moroso e un ristorante dal nome Penny Lane. Brutto come le
aspettative spesso ingannano. Le aspettative sono proiezioni di
emozioni, non la realtà. Ma cos'è la realtà?
9
Da adolescente impazzivo per un gioco
sulla PS2, Ico. Una poesia, forse qualcuno se ne ricorda.
Era pressappoco la storia di un ragazzo
maledetto che doveva prendersi cura di una fata e ogni volta che i
due si muovevano non lo facevano autonomamente ma si tenevano per
mano.
Vagolando per la città m'è tornato
in mente questo: molti ragazzi del posto camminano ancorandosi l'un
l'altro come fossero cose preziose. È poesia pura, questa.
Ho chiesto il motivo, la risposta è
che sono contenti di vedersi e non vogliono allontanarsi.
Già: la condivisione, che così tanto
stride con l'individualità, la quale a sua volta stride con
l'annullamente di sé. Questo paese mi appare come un continuo
stridere le convinzioni, ma in tutto questo vedere due ragazzi in
armonia fa bene al cuore, alla mente, o a quel che è.
Chissà cosa scriverebbero su twitter i
nipotini di salvini se fossero qua. Ma poi, chissenefrega, meglio
scordare in fretta il luogo di partenza.
10
Ho guardato Shangri-La negli occhi,
l'ho appoggiata sulle ginocchia. E l'ho trovata amara. E l'ho
ingiuriata, proprio come Rimbaud con la Bellezza.
Sento spesso parlare dell'inferno come
di un luogo invisibile, espiatorio senza appello finale, di un luogo
– appunto – infernale. Questo perché si dà per scontato che sia
peggio dei luoghi terrestri.
La valle di Kathmandu è infernale,
ecco.
Sembra che un qualche dio abbia
rovesciato per dispetto uno scatolone di Lego, non posso credere che
quelle siano davvero abitazioni.
Guardi gli occhi delle persone che
infestano questi chilometri quadrati di latrine terre polverose cani
spiaggiati motorini col clacson perpetuo e ti chiedi "Ma com'è
possibile."
Shangri-La era un ipotetico punto di
arrivo, ma ciò che sto compiendo non lo è.
È un passaggio, un iter.
Il viaggio lo si compie e dura una
vita, lo si compie alla ricerca di sé. Per questo non potevo
pretendere fosse la meta. È un passaggio: bello, doloroso,
necessario. Un iter, appunto. Uno di quelli che più di altri
necessita di essere ruminato; per anni, chissà.
In fondo, cos'è il tempo?
Lo cantavano gli Ustmamò: "Che
cos'è l'eternità / se gli anni ottanta eran tanto tempo fa?"
11
Oggi ho meditato. Letteralmente.
Sono entrato in un tempo buddhista
(buddhisti, induisti, qua la tolleranza è di casa).
Insomma, ero seduto coi monaci,
entrando in punta di piedi perché non mi reputo mai un turista ma
allo stesso modo non riesco a trovarmi agiato in alcun luogo. Sono
stato lì dapprima seduto in silenzio ad ascoltarli, col gong
incessante vibrato da un bambino che lentamente ha preso sincronia
con la mia cassa toracica.
Cos'è il tempo, dicevo.
Il suono ha iniziato a partire da
dentro, è scattato un qualche cosa che a freddo proverò a
interpretare. Poi è accaduto un altro fatto.
Una stronzata, per chi leggerà, ma non
sono forse le stronzate a tenerci aggrappate alla vita?
Ho avuto la sensazione d'esser entrato
in sintonia con l'ambiente, con l'aria che vibrava nella stanza,
tanto che dopo un'ora la meditazione è terminata e un monaco ha
fatto cenno che per oggi era abbastanza. Ripeto, è una stronzata, ma
vedere un monaco terminare prima di me rimarrà un ricordo che mi
terrò caro per tutta la vita (probabile che quello fosse per lui un
semplice riscaldamento ma a essere importante è stato il gesto, of course).
Un pomeriggio mistico, per quanto
questo aggettivo sia solo al primo stadio, per me. Mistico.
Ho meditato coi monaci, per la miseria!
E mi sento bene; mi guardo i kanji tatuati sul braccio e sorrido.
Appartengono a una vita fa, una vita in cui ero me stesso ed ero
colui che non ricordo.
"Chi volli essere mi dimentica
Chi sono non mi conosce"
recitava il buon Pessoa.
È incredibile come certe frasi
imparate secoli fa d'improvviso prendano nuovi significati.
La via verso la conoscenza: non è in
fondo questo, il senso della vita?
E se trovassi – o meglio: se qualcuna
mi sopportasse – la persona con cui condividere il cammino, non
sarebbe più semplice? O forse rimarrei condizionato?
Inizio a credere sempre meno nel verbo
avere, assaporando il Nepal mi pare più una limitazione che altro. O
forse lo sono i verbi, tutti. Chissà cosa ne direbbe Siddharta. Che
tra l'altro qua è raffigurato magro, non come quei bonzoni dorati
che si trovano dalle altre parti. Ma ho tempo di riempire le lacune,
quando vorrò sapere. Per ora mi limito a osservare.
12
"Avere" è un verbo
"Amore" è un sostantivo
"Tu" è un soggetto
"Io" – senza te – non
sono.
13
È tutto troppo presto, troppo veloce.
Un po' come giungere all'illuminazione
e rimanere scottato.
14
Un villaggetto, credo Bungamati.
Una ragazza splendida cammina.
Io cammino in direzione opposta.
Ci sorridiamo.
Lei, sotto l'ombrello a ripararsi dal
sole, è bellissima.
Io fumo distaccato e indosso la
t-shirt blu di Neil Young quindi sono figo di riflesso.
Tre passi - non di più - e ho la
necessità di voltarmi, non che stia sognando!
Pure lei ha avuto lo stesso pensiero e
ci sorridiamo ancora.
La vita è magnifica. E pure io, quando
una persona mi sorride.
...
La leggenda narra che a quel punto Liuk
fece tre passi verso di lei e dal nulla comparve un intruso chiedendo
al nostro eroe se gli andasse di scambiare una sua sigaretta nepalese
con una camel. L'eroe accettò più per cortesia che altro e quando
la accese si accorse che della dea non c'era più traccia.
Il Nepal è anche questo, mi sa. Un
viavai di dee e scambiatori di sigarette nazionali marcate Surya.
[CONTINUA...]
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