SOUNDTRACK OF THE DAY
One bourbon one scotch one beer – John Lee Hooker
I want you – Bob Dylan
Route 66 – Chuck Berry
Caroline – Wolfmother
WEEKEND IN LA
Passeggiare
per Rodeo Street, Beverly Hills, è terapeutico. Ti viene da pensare che
dietro le varie vetrine di Gucci Valentino Zegna & co. ci sia lo
spirito di Freud a battere sui vetri, bum bum bum, senti il
rumore delle nocche che sfregano rossastre ma intorno non vedi che
ragazze e uomini con borsate di vestiti e quasi ci rinunci a scoprire
cosa sia quel rumore, prosegui a mirare altri manichini imbellettati di
tutto punto per improponibili feste, credi quasi che basta guardarli per
essere parte dell'Americacheconta e proprio quando l'idea inizia ad
avvelenarti - giù dalla trachea, glugluglugluglu - di nuovo il sordo rumore delle nocche torna a martellarti.
A martellarmi, per essere precisino.
Dimentichi i nomi griffati e ti dai un colpo in fronte, meglio se accompagnato da un "Ma come ho fatto a non pensarci prima?".
E non ti resta che una cosa da fare: chiudere gli occhi.
Chiudo gli occhi.
Li
riapro, riprendo a camminare, le facce e le gambe nude sono ancora
tutte lì, la macchina fotografica appesa al collo a mò di zavorra. Poi
le riguardi, le vetrine. E, cazzo!, un Freud psichedelico e bellissimo
con la t shirt sgargiante come quei personaggi hippie peace&love che
abbelliscono le spiagge di Venice Beach è immobile e ti fissa. Mi
fissa!
Fa
l'occhiolino e poi scompare, ma non ti credere, la vetrina mica torna a
violentarti i bulbi oculari con quei manichini pazzoidi, eh no!, eh no
mio caro lettore, al loro posto c'è il senso dell'illusione, l'amore di
plastica, il messaggio che lo psicologo barbuto ti ha lasciato prima di
tornare evanescente.
Tutto è effimero e tutto è ciò che credi erroneamente amore.
Hai
presente adesso?, li visualizzi bene i volti di quegli pseudoamori
passati?, quelli che ora ti vergogni a ricordare, di quelli che
giustifichi te stesso col "Sì vabbè ma a quei tempi non capivo niente?"
Passeggi,
passeggio, e per qualche minuto in ogni vetrina di Beverly Hills vedi
il volto di una persona che credevi di aver amato, quasi fossi un
Ebenezer Scrooge californiano in via di improvvisa penitenza. E così
anch'io, a riempire le vetrine di
SilviaChiaraFrancescaAnnaStefaniaElisaEcceteraEccetera, nomi su nomi su
nomi che sovrapposti si mischiano fino a divertare null'altro che
lettere prive di senso, così dalla confusione mi giro a guardar la
collina e vedo altre lettere a comporre la scritta "Hollywood" e rido
– ma sottovoce eh, che di fronte ci sono due cinesine carucce non vorrei
far brutta figura.
Le
cose finte sono quindi lettere sovrapposte? E quelle vere, che sono? Ma
poi, cosa sono le cose? E ancora: possibile che non posso semplicemente
godermi una passeggiata?
Poi l'incanto sparisce, è tempo di
rimettersi in marcia verso Las Vegas e i manichini tornano a governare
il quartiere di plastica, la via degli amori che non erano tali, degli
oggetti che mai e poi mai ti sciacqueranno le macchie dell'anima.
Los
Angeles è digeribile come una torta al botulino, dove a ogni fetta
ingerita non capisci se a esser finta sia lei oppure tu. E ti ritrovi
col piatto in mano a chiederne ancora, solo un'altra, che male potrà mai
farmi in fondo?
Il sogno americano è l'oblio dell'incubo europeo.
In
quel caos da videogioco è semplice capire ciò che sta dietro a El
Pueblo de Nuestra Senora de los Angeles de Porciuncula de Asis. In una
città con quel nome non c'è da stupirsi del traffico assurdo. In fondo
noi siamo esseri umani privi di ali, non angeli, perdìo!
BRYCE CANYON
Il
rosso. Il giallo. Il Diosolosachetonalità. Il Bryce Canyon è l'ultima
goccia della madre di ogneccosa precipitata sulla terra, prima che
entrasse in menopausa.
E' pioggia fertile sotto forma di deserto.
ON THE ROAD
Nevada, con le sue luci della notte che non ne vuole sapere di uscire dalla tana.
E
via, attraversarla guardando gli infiniti tralicci provenienti dal
nulla, dall'inferno?, verso la città della plastica elettrificata.
E seguire la direzione opposta.
Controcorrente.
Borderline di me stesso.
Avanti,
dunque. Fino a scovare il cartello Arizona, coi suoi cactus che ai lati
pungono e vengono punzecchiati dal vento. Tutt'intorno arenaria fin
dove la retina ne sopporta il riverbero. Eppure anche qua l'America si
mostra implacabile e dolcemente nostalgica, tempo di ambientarsi al
termine Arizona che il verde, il lago, i Navajo, le betulle, l'aria
frizzante, le casette di legno pace&empatia si fondono in una parola
di quattro lettere: Utah. Aiutati che 'l ciel t'a-Utah.
Le strade
tortuose ti shakerano fino a che non ti si sgasa l'acredine del finto
vivere di Los Angeles e Las Vegas, tanto da iniziare ad amare ugualmente
quelle contraddizioni, quasi che l'America sia in realtà un insieme di
pensieri e convinzioni antitetiche della nostra vita. Contrastanti. E
tutto sommato vere. E nella loro stramba concezione di vita dipesa dal
petrolio, inizi a dirlo sottovoce, con meno vergogna di una settimana
fa: God bless America.
ANTELOPE CREEK
Se alzi lo sguardo, c'è una ferita azzurrognola denominata cielo.
Se
poi te ne freghi del torcicollo e di inciampare nella gola di sì e no
due metri ti si insinuano pensieri da stillicidio: e se fossi finito in
una clessidra e in questa grotta la mia vita fosse capovolta? E se
sfidassi la gravità e saltando cadessi nel buco infinito che ora è il
cielo?
Mi riprendo, tocco le pareti guardando avanti e ringrazio gli
dèi di aver fatto sì che questo lembo di Gaia sia stato costruito con
pietre friabili, preservandole dalle pazzie degli architetti.
Sfioro la sabbia e la sabbia mi parla in un silenzio scintillante.
Un giorno capirò le sue parole, lo so. E anche tu.
ALBA AL MONUMENT VALLEY
Superato l'invisibile confine tra Utah e Arizona, nella terra dei Navajo.
La
Monument Valley è lì, le Tre Sorelle mi aspettano e tra le prime luci
dell'alba il silenzio che mi ammanta echeggia tanto da far male alle
orecchie. E capisco il senso, mentre affondo le caviglie nella sabbia,
di quando da piccolo leggevo le poesie indiane che spiegavano "La voce
della terra è la mia voce".
BREAKFAST
La
giovane navajo sorride premurosa che il piatto della colazione non mi
ustioni le dita. Io ringrazio e guardandola negli occhi comprendo quanta
dolcezza ci sia in quel sorriso spontaneo. Mangio, mi porge lo
scontrino e sul retro ha disegnato col trattopen verde il volto di un
topino felice con sotto scritto Thank you.
Giuro, certi piccoli dettagli fanno bene al cuore.
Che
poi uno può ascoltare tutte le radio stazioni che vuole ma la frequenza
dell'Amore Universale si trova sempre e solo tra le pieghe di un
sorriso.
SUA MAESTA', GRAND CANYON
Bob
Dylan mi ripete dalle cuffie dell'iPod che The times are A-changin', io
passeggio con lo sguardo fisso su quelle fratture di rocce sabbia
calcare e granito che è il Grand Canyon e faccio sì con la testa. C'è
una frattura in particolare che ti rapisce. Cioè, è tutto così strawow
che l'occhio fatica a registrare i dettagli e ti senti spaesato come una
macchina fotografica che per mettere a fuoco il paesaggio continua a
smuovere gli ingranaggi, tuttavia c'è un punto dove ti si scatena
l'entusiasmo delle domande a cui vorresti davvero rispondere. Una
frattura taglia il paesaggio e si perde verso l'infinito, eppure allo
stesso tempo la voglia di scendere laggiù, scaricare lo zaino dai
rimpianti e riempirlo di gioia, pur sapendo di non fare ritorno, è lì a
premere.
Che certe cose non vanno ragionate.
Vanno vissute.
E
un po' mi è dispiaciuto non aver indossato la tuta alare per lanciarmi.
Una parte di me continua a dire che se l'avessi percorsa avrei trovato
il luogo dove finiscono gli arcobaleni, il luogo dove le anime dei
viaggiatori lavano la loro coscienza, il moleskine e l'infradito.
Nel
romanzo che prima o poi uscirà, River alla fine dell'arcobaleno il
pentolone lo trova. Dentro non c'è oro ma un biglietto con su scritto
"Try again". Questo perché lui questo posto non l'ha visto. Sono sicuro
che avrebbe apprezzato.
Fino a ieri il Grand Canyon era la mia più
bella cosa mai successa. Oggi che mi ha permeato di magnificenza e
malinconia, non mi resti che tu. Quando saprò chi sei te lo dirò, giurin
giurello. The times are A-changin', dopotutto.
Il Grand Canyon è una
puttana anarchica e caritatevole che ha aperto allo stesso modo le
gambe a me e alle altre persone intorno, consapevole che ognuno di noi a
un certo punto dovrà chissàcome saldare il conto.
Per adesso, grazie.
THE JOSHUA TREE
Oggi
ho avuto una visione, di quelle vere e rivelatrici intendo, non c'entra
nulla la solita temperatura a 100°F, le sinapsi erano tutte belle
fresche e vigili. All'entrata del Joshua Park – sì, lui, quello del disco
di quel gruppo irlandese - ho visto la donna che possiede le
caratteristiche in grado di smantellare la mia coriacea corazza da
single, con tanto di braccio tatuato a colori e aura da pacifista. Ciò
che non sarà mia moglie, I suppose. E allora perché invece di scriverlo
non ti sei semplicemente presentato e poi chissà?, perché?
Perché?
Semplice. Potrei giustificare me stesso dicendo che non era quello IL
momento, che non so in che lingua comunicare... le scuse arrivano
tranquille in doppia cifra ma la verità è che ne ero terrorizzato. E la
vera verità è che ancora oggi, nonostante 32 anni e 10 mesi di ricerche,
continuo a essere uno stupido, nella migliore delle opzioni. Sappiate
solo che se mai doveste vedere il Joshua National Park, dopo l'entrata
principale vi imbatterete in un bar e lì la Dea – chissà come si chiama,
qual è il suo colore preferito, se nel cassetto dei sogni ha ritagliato
lo spazio per un viaggio in Italia - la incontrerete seduta di fronte al
Pc, intenta ad arricciarsi i capelli. Neanche Bye le ho detto uscendo,
certe volte mi prenderei a calci nel culo fino a far sanguinare l'ombra.
Comunque.
Il
parco è uno spettacolo, la faglia di Andrea si è mostrata in tutta la
sua bellezza e da buon geologo mancato ho goduto del panorama con
sottoretina i ricordi della lussureggiante Rift Valley. Il deserto del
Mojave incontra quello del Colorado con l'imbarazzo di due cugini che
alla cena di ferragosto scoprono di avere la stessa madre, pur se
esteriormente pochi dettagli ne avessero anticipato agli occhi dei meno
attenti la rivelazione.
E'
l'infinito, e io non ho fatto altro che saltellare da un masso
all'altro cercando l'equilibrio per vivere al meglio il momento senza
disturbare. Sono rimasto a fissare lo spazio in silenzio, un po' per
godermi l'ennesimo Panorama delle Mille Domande e un po' per non
infastidire a distanza i gesti della ragazza tatuata contenitrice dei
miei ideali.
COSA HO IMPARATO DAL VIAGGIO?
Attraversando
la Route 66, tra contraddizioni della real america, vite gonfiabili
giocate ai tavoli della roulette, orizzonti creati da dèi in stato di
grazia e storie di persone splendide – non personaggi, persone - che non
ho intenzione di abbandonare senza intrecciarne ancora il mio destino al
loro, il messaggio che ho compreso sta in un adesivo comperato a
Falstaff, pronto pronto per esser appiccicato sul bagagliaio della
Micra:
E'
l'amore, nelle sue mille sfaccettaure, a smuovere le cose. Tutte le
altre azioni sprovviste sono poco meno di gesti meccanici, privi di
significato al di fuori della sopravvivenza fisica e momentanea. Le
persone che ho conosciuto in questi giorni le amo tutte indistintamente,
e una volta compreso questo cosa può torcermi la paura?
Possa il Far West depositare i crotali delle insicurezze nella distesa del tuo cuore priva di rocce e anfratti, oh lettore.
La paura è buio, l'amore è fluorescente.
CHICAGO
Alla
fine del viaggio non si trovano pentoloni d'oro, dunque, ma locali di
una città splendida che odorano di storia e musica blues.
Il blues, sì. Quello vero, intendo.
Quello
che sfrega l'amuchina sulle ferite del tuo cuore dopo averle
scartavetrate a suon di scale pentatoniche e gorgheggi in Si minore.
Il blues ti tende la mano e nel momento in cui decidi di accettare il suo invito ti trasformi nel megafono di te stesso.
E
così mi son ritrovato a scolare qualche birra locale, di fronte ai
deliri di una armonica al sapore di veleno che dopo avermi riportato ai
livelli di quando la chitarra era la mia espressione mi ha sbattuto a
terra con violenza, lasciandomi affogare in un mare di post-it zeppi
delle mie insicurezze.
Il blues è un demone mai in saldo, oh lettore.
Puoi non vedere, puoi rifiutarlo, lui comunque se ne frega ghigna e fa leva sui tuoi dubbi a suon di Mi settime e La maggiori.
Il blues è l'amante che ti sporca di rossetto il vestito buono.
Il blues è lo specchio che ti mostra gli errori irrisolvibili.
Il
blues, sì, il blues, sono io che ti guardo vivere mentre colpisco
sempre più violento la campana di vetro che mi impedisce di
raggiungerti, senza preoccuparmi se una volta libero mi vorrai vedere.
Il blues è la mano lorda di fango pronta a darti la carezza più dolce che mai.
Il blues è la Mamma Oca che ti spinge verso la libertà senza spiegarti che cosa sia.
Il blues è il punto interrogativo che sta sospeso nell'attimo precedente al nostro possibile primo bacio.
Thank you, America.
Immergendo
le mani nel brodo delle tue contraddizioni ho trovato altre tessere del
mio puzzle, immagini domande e risposte sono un poco più chiare, ora.
May the long time sun shine upon you.