Ci
sono posti (e/o persone) che vivi in testa per anni prima di venirne
a contatto; e a volte non ti ci confronti neppure, dici «che senso
ha spostarsi nell'epoca di internet» o trovi mille altre
giustificazioni, perché giustificare le nostre mancanze è un dono
innato e tanto vale sfruttarlo. Fortuna che son fuorilegge e non
ascolto i buoni consigli manco quando provengono da me, così dal
momento che il romanzo in stesura tratta anche l'aurora boreale ho
pensato "E se andassi in Lapponia, che già a dire Lapponia
sento l'odore della neve pizzicarmi il naso e intravedo il cielo
lisergico?"
Ci
sono andato, dunque.
E
niente, insomma: io della Lapponia ho otto cose da dire.
Il
primo impatto è stato confrontarmi con Helsinki – che occhéi non
è Lapponia ma è iniziato tutto da lì.
Una
volta sbarcato non mi sono reso conto che avrei dovuto salutare il
sole autunnale; registrare le mie abitudini in un luogo che si
prepara all'oscurità è un qualcosa che per assurdo non avevo
preventivato.
Eppure
sono l'Imperatore delle zucche vuote, l'autunno incarnato, il buio
non dovrebbe preoccuparmi no? E invece, a pensarci adesso, il
crepuscolo al primo pomeriggio è da vivere sulla propria pelle, se
avessi provato a descriverlo senza averlo visto dal vero avrei
vomitato le solite sillabiche ovvietà. Salvo per un pelo.
Comunque.
Il
finto buio tutto intorno è la sciarpa che ti protegge dai mostri che
vivono alla luce del giorno.
Helsinki
è una ragazza bionda che scuotendo la testa riflette il crepuscolo,
è una città a primo impatto insipida, di quelle che quando
l'abbandoni d'istinto dici «non c'è nulla» e mentre rumini la
frase osservando il molo da dietro la vetrata della camera d'albergo
avverti il retrogusto del "cosa succederà sotto la
superficie?"
Guardo
la gente e immagino la loro vita monocromatica, i giorni che si
dilatano annullando il concetto di tempo. Svegliarsi lavorare uscire
di casa rientrare a casa sempre e solo col buio. Persone che non
posseggono un'ombra. E via così, fino a sviluppare l'istinto di
sopravvivenza in una nuova forma di buio interiore; essere così
oscuro che il crepuscolo in confronto è l'arcobaleno.
E
una volta imparato ciò il tempo cambia le carte in tavola e diventa
luce per mesi.
Luce
che non cala mai ma senza scaldare dentro, luce che rende l'essere
umano obliquo come i raggi che fungono da sciarpa all'oscurità
creata in precedenza.
Vivere
in questi luoghi dev'essere come entrare nella casa degli specchi.
Al
pomeriggio, quando l'oscurità troneggia, nulla è per davvero
invisibile.
Come
insegna lo yin/yang, c'è sempre – anche quando fiocca la neve e
tutto pare anni luce dal Mediterraneo – una sorta di bagliore che accenna i contorni.
Minimo,
a volte, ma palpabile. La neve stessa riflette la non oscurità. È
un bagliore che c'è e non c'è, distante, come se qualcosa oltre
l'orizzonte alimentasse il fuoco di un calderone dai cui fumi
fuoriesce l'essenza delle religioni.
«È
una possibile aurora in avvicinamento», dicono.
«È
la tua mancanza», dico.
Mi
domando se quel bagliore si presenterebbe se tu fossi ora qui a
vederlo.
E
se sì, che tonalità avrebbe.
E
se sì, allora che cos'è.
E
se sì, perché.
Guidare
al limite. Sentire le braccia intorpidite, le scosse di adrenalina
che dalle zampe dei cani scorrono sulle corde della slitta e da lì
salgono fino agli occhi del guidatore, il sottoscritto.
E
li guardo in un assurdo gioco di potere, fingendo di essere io a
comandare in un turbinio di segnali, parole e movimenti. E invece,
chissà.
Certo,
dovrei lasciarmi andare ancora di più, "liuk gli husky sono
bellissimi ricordati la storia di Balto e blablabla", ma a casa
c'è una gatta che mi aspetta e sento il peso del paragone, la
bilancia che pende a favore dei felini.
Guidare
una slitta è un rito, una prova di forza, l'uomo che si impone sulle
creature a proprio vantaggio.
Sicuro
che i lapponi per farlo avranno i loro validi motivi,
giustificazioni, che se liberi o allontanati dal branco magari quei
cani perderebbero motivazioni d'essere, probabile. È solo che una
volta sceso dalla slitta gli ululati vengono zittiti da pensieri
ambigui: dov'è l'armonia del mondo se l'essere più debole domina i
più forti? È buona norma procedere cauti, la neve ha il potere di ricoprire tutto e in quel tutto i passi possono pur sempre finire in un lastrone ghiacciato. Forse è questo l'insegnamento lappone: il cervello,
l'intelletto va curato costantemente (la sola forza fisica serve
a poco), consapevoli però che a ogni nuovo livello di
conoscenza raggiunto un vago senso di malessere – la puntura di un
fiore del male, l'idea di agire egoisticamente contronatura, il
tacito desiderio di essere punito per la propria presunzione... –
ti si accollerà sulla schiena in silenzio. Rimarrà lì, latente, e
prima o poi ti busserà sulla spalla per farti voltare e allora
insieme, tu e la puntura, scoprirete se il seminato avrà prodotto
prati armonici o cumuli di nulla. Quando scoprirai con sgomento di camminare sul lago ghiacciato, beh, potrebbero anche piacerti quei crrrrrriiiiicccc, e chi lo sa? È l'anima pesante che fa affondare.
Più
in alto ti elevi, più visuale del tuo dominio puoi mirare. Pure gli
alberi qua sono spilli giganti, per dire.
Più
in alto ti elevi, più le vertigini potrebbero schiantarti senza
appello.
Ma
più in alto è il destino, più in alto comunque è la meta da
raggiungere, punto.
Poi
va beh, guidare la slitta è elettrizzante: è solo che per me un
ululato non vale le fusa feline, ecco.
È
una danza.
È
il torcicollo.
È
un pittore che abbozza il cielo da dietro le nuvole.
Il
lago ghiacciato a contorno, l'accenno di manto stellato che sfuma in
arcate verdognole senza preavviso e fai appena in tempo a sospirare
che già si sposta chissà dove.
L'aurora
boreale non aspetta.
L'aurora
boreale è il desiderio espresso dalle stelle cadenti.
L'aurora boreale val bene una messa. A fuoco.
L'illusione
che il ghiaccio sulla superficie del mare trattenga in stand by la
vita, un dito sulla reflex che preme lo scatto a metà alla ricerca
di una messa a fuoco definitiva.
E
poi il vento a smuovere la superficie ghiacciata del mare in mille
ghirigori, a modellare la neve che a questa latitudine diventa una
immensa duna in costante metamorfosi.
Un
passo controvento è una conquista come poche altre.
Perché
e fortissimo, ti squaglia i pensieri.
Vorrei
che la distesa di neve e ghiaccio da qua al mare glaciale artico si
trasformasse in un mulinello e mi portasse via, o almeno mi
cristallizzasse la coscienza.
Sotto
quel ghiaccio c'è un mare che accoglie molluschi e predatori,
plancton e capodogli. Sotto quel ghiaccio ci sono io, ci siamo noi,
la nostra essenza che non ne vuole sapere di farsi riconoscere in
volto, di scoprirsi se non durante il nostro affacciarsi sull'abisso.
Cammini
a Nordkapp e percepisci per davvero che stai calpestando un confine,
fisico e mentale.
E
come in ogni confine, il vento incessante non lascia spazio per i
pensieri: i confini vanno vissuti, per poi essere superati.
Lago
ghiacciato. Alberi che spingono esilmente dal terreno come migliaia
di antenne wifi, la neve li preme giù ma stoici sostengono col
tronco la loro esistenza.
Sono
fili che sfidano la gravità incuranti delle occhiate stupite dei
troll a passeggio durante la notte. O meglio, in ciò che io
chiamo notte. La natura qui avrà sicuramente altri nomi per
definirla, non importa.
Cammino
imperterrito nella neve battendo nuovi sentieri, il respiro
irregolare diventa apnea quando sento l'eco di un fiume o il richiamo
di qualche animale. Non mi vedo, ma so di essere bellissimo sereno e
in pace con me stesso.
Straniero
è una parola senza significato quando ti rendi conto che la tua casa
è il mondo.
La
Lapponia è un innevato post it gigante con su scritto "Camminare
è la soluzione".
Fiocchi
di neve scivolano sul cappuccio e sembra che da sopra la mia testa si
stiano sbriciolando pacchi di polistirolo: nevesterolo.
A
terra le impronte di lepri, renne e chissà quali altre entità.
Impronte di Lapponia. A terra le impronte dei miei scarponi.
A
differenza dell'inarrivabile Islanda, i silenzi lapponi non ti
allertano i sensi nell'attesa di una qualche entità. Si gode il
nulla e basta, che già di per sé è un qualcosa di gratificante
oggigiorno.
Il
viaggio è il viaggiatore, il luogo è la somma dei passi percorsi:
io sono leggenda, io sono Lapponia.
Sotto
di lei ti senti ancora più piccolo, un granello di sabbia nella
clessidra del tempo, immerso in una bolla di placenta che non puoi
toccare.
L'aurora
si muove, sfugge, irride il torcicollo e la ginnastica improvvisata
per sgusciare dalla morsa del freddo; prima di giungere in questa
terra credevo che lei fosse la risposta, in realtà è di più:
l'aurora ingloba e soffia e attrae e disperde una quantità
impressionante di risposte, così tante che a disfare la matassa per
riconoscere quella adatta c'è da impazzire, al punto da
dimenticarla, la domanda.
E
allora, cosa conta scervellarsi se la domanda che vorremmo porre
risulta sfuggevole come l'attimo presente?
Nell'intravedere
l'aurora mi sono reso conto per davvero di quante parole ancora
dovranno essere inventate per definire le sensazioni umane.
Siamo
un divenire, siamo noi stessi dei vocaboli erranti sulla punta della
lingua di chissà quale entità.
L'aurora
boreale, un po' come gli altri grandi fenomeni in giro per il sistema
solare e oltre, non ha religione, abbraccia chi persegue il bene e
chi il male senza distinzione, se ne frega di chi la ignora e di chi
la ama.
Lei
è, e c'è molto che dovremmo imparare da ciò.
Non
sarebbe malaccio (visti gli ultimi avvenimenti, tra l'altro) per un
po' tutti insieme mettere al primo posto delle nostre rapide e
mortali vite la gioia, la condivisione della bellezza, l'armonia.
Anche solo per un breve periodo, vedere che succede.
Il
resto in fondo scivolerà, che lo si voglia o meno. Anche la gioia,
certo, ma ripensare ai vari spettacoli che la natura ci offre ogni
giorno senza pretendere preghiere in cambio – che sia l'alba, un
raggio di sole che filtra tra le nuvole, una brezza di buongiorno, la
luna piena, un girasole, quel che si preferisce – dovrebbe farci
ricordare quanto siamo fortunati a infestare un pianeta simile e che
per ringraziarlo potremmo semplicemente distribuirci senza troppe
cerimonie atti d'amore e di gentilezza l'un l'altro, a casaccio.
Ma
poi io che ne so, perseguo nella mia incoerenza di fondo, dicevo così
per dire, un abbraccio ogni tanto va bene ma non troppi che poi mi
manca l'aria.
È
solo che ammirare l'aurora in silenzio ti fa sentire bene – sì,
bene è generico, servono davvero altre nuove parole per questo
spettacolo, ho tanto lavoro da fare!!! - e ti spinge a cercare una
risposta a:
Se
la natura è armonica, in ogni sua forma lieve o crudele, perché mai
ostinarsi a vivere stonati?
In
fondo girovagando per il pianeta il messaggio che percepisco è
sempre lo stesso...
P.s.
Ora sono tornato, ho una sfilza di idee per il romanzo ma soprattutto
dovrò superare l'ansia da prestazione per via di questa cosa molto
bella che mi succederà a breve qui http://bottegadinarrazione.com/
C'è da lavorare parecchio e confrontarmi con persone più brave ed
esperte di me, che stimolo! Ho deciso di mettermi in gioco, con
questa esperienza: inseguire i sogni va bene però a volte è
necessario realizzarli.
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