giovedì 7 maggio 2015

TOKYO KYOTO e altri anagrammi (parte 2 di 3)

03. GAIJIN




Il Japan mi ha regalato la concezione di straniero. Il sentirsi inferiore agli occhi degli altri. Le occhiate di disprezzo, del 'vorremmo assomigliarti ma non ci riusciamo'. Vivere lo spazio ristretto durante gli spostamenti in metropolitana attento a non far rumore, a non risultare clandestino, fuoriposto. Rollare veloce una sigaretta nella smockin' area di Shibuya e una volta accesa accorgermi di essere l'unico occidentale e di avere più spazio attorno rispetto agli altri, quasi che non volessero respirare lo stesso fumo. In un negozio immenso di manga, nei pressi del quartiere di Akihabara, mentre mi accorgo di sfogliare pagine a casaccio l'istinto mi dice di non fissare nessuno negli occhi. Gli occhi, certo. Disegnano i personaggi con quegli occhioni grandi che solo Tim Burton s'azzarda a competere nei suoi lungometraggi; l'impressione è che -ahiloro!- vorrebbero assomigliare agli occidentali e questo mi lascia perplesso, non tanto per il voler essere qualcosa d'altro - quello in fondo capita più o meno spesso di pensarlo - ma perché ripensando veloce a un paio di idoli venerati durante l'adolescenza continuavo a sfogliare i fumetti e pensavo a roberto baggio e bud spencer e dire che sono diventati famosi per le loro occhiate mi pare fuoriluogo. Meglio che in Japan queste cose non le vengano a scoprire, i mangaka andrebbero in rovina. Piuttosto. 
Il sorriso dei Jap è tutt'altra cosa rispetto al namasté nepalese, è come se un seguace di Dalì avesse ridisegnato le loro facce dividendole in orizzontale: quando la bocca si esprime in un saluto servile gli occhi ti lanciano occhiate come se avessi impiccato i loro cani, stuprato le figlie o rigato la Wii.
Il Japan è quella terra di mezzo tra l'ucronia di Orwell e la psichedelia di Willy Wonka.
Soprattutto a Tokyo, così oggettivamente futuristica, ho avuto l'impressione di non trovarmi in mezzo a persone quanto piuttosto bande di avatar, bipedi creati su second life che da pixel si sono fatti carne e vagano per i quartieri - chi vestito in doppiopetto chi vestito da sailor moon - alla ricerca di azioni o bonus nascosti per passare di livello.



Detto questo: una volta scremata la concezione lisergica&fascistoide degli uomini, del Japan risalta il regno animale, storico e animista.
Sono gatti volpi e corvi i veri padroni dell'arcipelago.
Sono i ciliegi i veri pilastri della nazione.
L'uomo, quello per fortuna passerà e di tutta l'energia utilizzata nella perpetua sfida tra Tokyo e il buio notturno (la capitale all'imbrunire si traveste da Principessa Elettrica) non resterà che un ricordo primaverile destinato a una fugace gloria estiva prima della sfioritura autunnale.



04. METAMORFOSI


In Giappone ho percepito ben poche volte l'idea di essere umano; gli abitanti tendono a essere spesso un qualcosa di inanimato, impersonale. Un mezzo per raggiungere l'obiettivo, più che l'essere che concepisce l'obiettivo stesso. Sono alienati.
Per dire: durante gli spostamenti in metropolitana l'entità giapponese perlopiù dorme o giochicchia al cellulare (perché sì, il telefono si può usare ma è obbligatorio eliminarne la suoneria ed evitare le telefonate, pena la pubblica gogna) e mi è capitato di divenire un semplice oggetto che occupa una superficie o tutt'al più un cuscino per giapponesi particolarmente addormentati.
Sii un cuscino, Liuk.




Oppure. Durante certi attraversamenti pedonali, che chiamarli incroci è davvero riduttivo, l'essere umano perde nuovamente consapevolezza e visto dall'alto non è altro che uno sturmstuppen di formiche. Formiche disordinate.
Sii una formica, Liuk.



05. MARUNOUCHI, STAZIONE NORD (SENZA PASSARE DAL VIA)


Fermo a osservare il via vai nella stazione centrale di Tokyo, mi passano accanto centinaia di persone e io, non so, è come se li vedessi sfrecciare in modalità time lapse. Donne col kimono, ragazzi coi capelli verdi, cosplayer riadattate per qualche gioco di ruolo che in Italia ancora dovrà essere nominato, adulti incravattati e donne scosciate o compresse in tubini beige, volti che in qualche occasione notano la mia presenza per poi proseguire verso il compimento del loro destino frenetico.
Sono ufficialmente invisibile. 
Sono ufficialmente libero. 
Sono l'uomo che scrive all'angolo dell'ingresso nord. 
Sono l'uomo che le telecamere di sicurezza non registrano. 
Quello che la guardia non riprende. 
L'uomo che nota le tonalità dei saluti e riesce ad anticiparne la reale gioia.
Esisto davvero?, oppure oggi ho compiuto un altro passo verso l'essere il corvo dei ciliegi?
Guardo il tabellone dei treni e visualizzo il momento in cui al parco dei ciliegi una folata di vento mi ha ricoperto di petali. (Cronaca vera, giurin giurello.)



Roba da sentirmi dire "Non sparare cazzate, non sei credibile, a te non potrebbe accadere, mai. I petali ti scanserebbero."
Eppure. Eppure è successo, qualcosa ha fatto il solito zapping improvviso tra i programmi della vita senza chiedere permesso: in fondo siamo storie raccontate in libri che nessuno sa e da che mondo è mondo gli scrittori sono comprensibili al pari dei discorsi di Trapattoni.
C'era un corvo in quel parco, l'ho visto e lui ha visto me, nascosto tra i rami. 
Tra tutto quel rosa lui è sempre stato lì, nerissimo eppure invisibile, che bastava un'occhiata all'insù per accorgersene, porca paletta! 
È stata la rivelazione, la risposta che cercavo, caspita. Così attaccato alle parole da anni non mi sarei mai aspettato che questa si celasse in una immagine. Tutto quel rosa, quella gente attorno che a ogni folata diceva "Ooooh" come i bambini di povia. E quel corvo. Lui. Io. A scambiarci consegne e impressioni in silenzio. Un punto nero nel rosa. L'illuminazione mi si è rivelata non come un lampo di luce ma un punto di oscurità.
I petali scivolavano addosso e ognuno era una promessa prossima, un soffio di "Perché non mi baci?, perché non mi stringi le mani?" E io che potevo fare, io che sono autunno in trasferta, una volta compresa la risposta?
Nel frattempo in stazione altre centinaia di vite continuano a sfiorarmi eppure, eppure..., eppure non visualizzo altro che te, Donna-in-rosa-che-sussurra-tra-i-petali, Nostra Signora dei Ciliegi, e mi ritrovo ad arrabattare parole sul taccuino che vorrebbero divenire haiku per l'occasione:

"Fiori per strada
Rosa è il cammino
Di chi riflette."
 
"Infelicità:
Punto dal tuo gelo
Cado sfinito."

"Non ha più senso
L'infedeltà del mondo,
Dolce autunno."

Le sensazioni provate in Giappone riecheggiano forti; io, che prima della partenza ero ossessionato dal divenire tutt'al più un altro me meno tendente all'infelicità, ho vinto. Jackpot, yeah! Una vittoria inaspettata, un continuo riempimento di cestini con le biglie del pachinko. Convinto che questa fosse la meta finale, l'ultima spiaggia, torno a casa con la consapevolezza di aver vissuto in questi giorni il capitolo zero di un romanzo tutto da vivere, col desiderio di creare l'occasione per stringerti la mano un'ultima volta. Una volta sola. Una volta ancora. E poi, ancora. E poi, ancora. E poi...
Sei tu, la Primavera. Sei tu, la Prima Vera.
Con un altro tassello del puzzle, con un altro passo compiuto verso l'orizzonte tornerò a casa portando appresso un misto di fuso orario Japan Rail Pass scatti rubati al tramonto e taciti accordi di promesse indicibili, grato al corvo made in Japan che mi ha rivelato il contenuto del biscotto della felicità tra la rugiada dei suoi ciliegi in fiore. È tempo di riabbracciare l'Europa, riprendere con la stesura del secondo romanzo (il pdf che ho scaricato sul kindle dice che "La creazione dell'Autunno" è fermo a 167 pagine, ho ancora tanto tanto tanto lavoro da fare...) e dopo una carezza a Zooey guardarmi allo specchio senza limitarsi a cercare i capelli bianchi.
Sempre più consapevole di ciò che sei, mio caro corvetto Liuk.



さようなら

Nessun commento:

Posta un commento